Conoscere l’implicazione logica (se p, allora q) o saper tradurre dal greco le tragedie di Eschilo o, ancora, essere in grado di dimostrare rapidamente il teorema di Pitagora non equivale alla conquista dell’arte del ragionamento, non comporta alcun vantaggio umano. In altri termini: possiamo pure ipotizzare che il possesso di alcune nozioni migliori le condizioni di vita del possessore, dotandolo d’una certa capacità di discernimento, ma in nessun caso si può postulare che un uomo è ‘più uomo’ – ci sia concessa la licenza! – d’un altro uomo. Forse che le urla d’un pescivendolo hanno una dignità inferiore a quella d’un accademico che tiene una presunta lectio magistralis? Entrambi, dal nostro punto di vista, possono essere considerati poietici; entrambi incarnano il verbo ποιεῖν (poièin): fare, generare, costruire. La poesia, di fatto, non nasce nella memorizzazione d’un verso elegante, bensì nella purezza del fare. Un messaggio paradigmatico, in tal senso, ci giunge dalla lettura di un capolavoro di Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič. Ivan Il’ič Golovin, una volta scoperto un male incurabile, sul punto di morire, si rende conto che il modello di sillogismo studiato nel trattato di logica di Kiesewetter non è sufficiente a giustificare il fenomeno estremo.
“Quell’esempio di sillogismo che aveva studiato nel manuale di logica del Kiesewetter, Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, perciò Caio è mortale, gli era sembrato, per tutta la vita, valido solo in rapporto a Caio e in alcun modo in rapporto a sé stesso […] Certo che Caio è mortale, lui è giusto che muoia, ma io, piccolo Vanja, io, Ivan Il’ic, con tutti i miei sentimenti i miei pensieri, io sono un’altra cosa. Non è possibile che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile.” (TOLSTOJ, L., 1886, Smert’ Ivana Il’iča, a cura di I. Sibaldi, Mondadori, 1999, Milano, p 46)
Coloro che giudicano nobile il possesso di talune conoscenze e il conseguimento dei titoli non fanno altro che ammorbare la cultura privandola della sua essenza originaria: l’essere del tutto slegata dal meccanismo di causa ed effetto
Il culto della cultura è sempre dannoso, pestifero, sinistro e, per ciò stesso, spettrale e temibile. Pertanto, coloro che giudicano nobile il possesso di talune conoscenze e il conseguimento dei titoli non fanno altro che ammorbare la cultura privandola della sua essenza originaria: l’essere del tutto slegata dal meccanismo di causa ed effetto.
È doveroso ricordare, a questo punto, che il sostantivo greco σχολή (scholè), cui si fa risalire il nostro scuola, significa riposo, ozio, tempo libero, agio, mentre il verbo σχολάζω (scholàzo) si traduce con avere tempo libero, oziare, riposare. Non a caso, i latini, ereditando questo patrimonio linguistico, distinsero l’otium dal negotium.
Insomma, in Grecia come a Roma, l’otium era il tempo libero dalle occupazioni che impegnano l’uomo per assicurargli la sopravvivenza. Il negotium era sentito come un dovere, l’otium come il momento del pieno possesso del tempo, in cui l’individuo poteva dedicarsi a tutto ciò che ne nutriva e corroborava lo spirito. E lo studio, in tal senso, era il ‘passatempo’ preferito, un momento libero da condizionamenti e doveri, sottoposto solo al puro piacere. In particolare, a Roma, l’otium, propriamente il tempo degli affari pubblici, fu sentito, almeno per tutto il tempo della Repubblica, come prioritario rispetto all’otium letterario, che invece si affermò sotto l’Impero, quando fu rivendicato già dai poetae novi. Il concetto di otium (letterario) è potentemente ribadito in Petrarca, che, nel De otio religioso, confessa, come sempre col senso di colpa che lo accompagna, che il tempo ozioso del religioso, in cui egli dovrebbe dedicarsi alla preghiera, per lui è unicamente occasione di studio, l’occasione per rifugiarsi dal mondo nella “cameretta che sempre gli fu porto” e dare corso alla grande passione: lo studio dei classici.
Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura [Il riposo senza gli studi è la morte e la tomba di un uomo vivo (SENECA, Epistole a Lucilio, X, 82, 3, trad. nostra, a cura di R. Gummere, 1920, 2° vol., W. Heinemann, Londra – G. P. Putnam son’s, New York, p. 242)]
Quid igitur? inquam; quando ages negotium publicum? Quando amicorum? Quando tuum? Quando denique nihil ages? [Ma quando ciò sia, qual tempo ti rimarrà per gli affari del pubblico? Quale pe’ i bisogni degli amici? Quale pe’ tuoi? Qual sarà finalmente quel giorno, in cui ti trovi in libertà? (CICERONE, De oratore, II, VI, 24, a cura di P. G. A. Cantova, tomo II, 1812, Rosa, Venezia, pp. 22-23)]
Il tempo della scuola, pertanto, è – e dovrebbe essere – un tempo incondizionato, in purezza, per così dire, mai trainato dal giogo delle categorie sociali, dalle amorfe alternanze, dal mare magnum di progetti e progettini, che, oltre a privare i docenti di tempo per lo studio, generano entità astratte, illusorie e confondono lo studente. La scuola, da tempo (sempre il tempo), è del tutto fraintesa, trasformata in oggetto di culto.
La dannazione dei social media, in cui tutti sanno tutto, in cui tutti sono artisti, fotografi, poeti, scrittori, virologi et similia, proviene proprio dal paradosso del fraintendimento della scuola
La dannazione dei social media, in cui tutti sanno tutto, in cui tutti sono artisti, fotografi, poeti, scrittori, virologi et similia, proviene proprio dal paradosso del fraintendimento della scuola, entro la cui dimensione si producono fantasmagorie e frustrazioni: giammai la libertà e l’amore dello studio come assenza d’altro. Ne consegue che colui che non ha avuto la fortuna di fare certe scoperte si aggrappa disperatamente pure ai rami secchi. Per fraintendimento della scuola rispetto ai social network intendiamo quel fenomeno a causa del quale l’utente medio, il più delle volte, pur non avendo consapevolezza di un testo o di una dottrina, riconfigura la fruizione della letteratura quale proiezione ed esaltazione, non altrimenti che se queste fossero le risposte a un bisogno. L’enfasi (auto-)celebrativa si forma sempre in astrazione da un autentico piano intellettuale e si manifesta come superamento irreale di un limite. In parole povere, si assiste alla riproduzione incessante di tweet e post in cui la cosiddetta cultura è ridotta all’esibizione dell’aforisma. Lo spazio di condivisione, in questo modo, si fa neutrale e disfunzionale; si creano continuamente delle entità sovrastrutturali negative, di esclusione, considerato che non si può instaurare una vera e propria dialettica tra il soggetto proponente e il fruitore. L’autore, infatti, propone un dato di cui ignora genesi e formazione, lasciandosi attrarre dalle forme simboliche, mentre il lettore, naturalmente, aggiunge dei contenuti o sulla base del medesimo approccio, facendo crescere il disagio relazionale e culturale, o per sovrapposizione di dati, annullando l’azione dello scrivente.
Ciò che viene a mancare, nella maggior parte dei casi, è il codice comune, laddove si è persuasi, al contrario e per errore, che il contesto digitale sia quasi sempre caratterizzato dalla prossimità linguistico-comunicativa. Abbiamo trattato più riccamente il tema in questione in “Sui poeti che non hanno mai letto Petrarca o Tasso: gettatezza e sostenibilità”, dove abbiamo fatto l’esempio dei ‘citazionisti’ che non perdono occasione per riportare aforismi d’ogni genere e specie, senza conoscere neppure la fonte del frammento citato. Adesso, la prospettiva che assumiamo è diversa: non ci limitiamo a descrivere un fenomeno, ma tentiamo, in qualche modo e sempre umilmente, di documentarne le origini, alla ricerca di quegli archetipi della lingua che portano l’uomo a credere che indossare un bell’abito significhi già, implicitamente, avere un bel portamento.
Quando questa conoscenza, già precaria e deficitaria nell’atto di nascita, arriva sui social network, è già troppo tardi perché si pensi a una qualche forma di riscatto o benefico mutamento
L’equivoco sembra essere filogenetico: basta prendere in esame la distorsione storica di γνῶθι σεαυτόν (gnòthi seautòn, conosci te stesso), che ha attraversato la ‘scuola popolare’ italiana ed è giunta sui social network con particolare forza virale, per comprendere la natura del male, per così dire. La sentenza scritta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, di cui si ha notizia anche attraverso il Protagora di Platone (343ab), resa dai latini con nosce te ipsum, è diventata presto una specie di invito ad esaltare l’interiorità, la finezza d’animo e così via, ma essa rappresentava unicamente una dura ammonizione rivolta dagli dei agli uomini affinché si mantenessero entro i limiti della giusta condotta e non eccedessero. Non a caso, si concludeva con μηδὲν ἄγαν (medèn àgan, niente in eccesso). Questo frammento, però, è stato ignorato dalla narrazione dominante. Perché? Perché, nelle scuole d’ogni ordine e grado, di solito, si leggono i brani scelti dai curatori delle antologie a scopo di sintesi; non si leggono interamente le opere. Ci si convince, di conseguenza, d’avere studiato un autore, di conoscerlo et cetera. Quando questa conoscenza, già precaria e deficitaria nell’atto di nascita, arriva sui social network, è già troppo tardi perché si pensi a una qualche forma di riscatto o benefico mutamento. Se, infatti, i primi utilizzatori del web venivano dal mondo delle interazioni fisiche, oggi, com’è noto, le nuove generazioni arrivano spesso all’interazione fisica solo dopo quella virtuale, crescendo dunque attraverso le ‘entità’ in essa formatesi. Ne consegue che i termini di paragone e di contrasto si riducono sempre di più.
Giorgio Ieranò, in Le parole della nostra storia Perché il greco ci riguarda (2020, Marsilio, Venezia, p. 134), ci informa, per esempio, di un altro equivoco grossolano: noi siamo stati abituati a idealizzare l’agorà greco-classica come luogo della cultura per antonomasia, ma l’agorà non era affatto un luogo d’elezione, era il luogo in cui si potevano veder passeggiare gli sfaccendati, in cui i contadini vendevano frutta e verdura, in cui, in generale, i venditori esponevano la propria mercanzia. Il fatto che poeti e pensatori vi s’incontrassero per fare una chiacchierata a tema non esclude il resto o non ne fa un luogo per pochi eletti.
In sostanza, si corre freneticamente verso la creazione di entità astratte di compensazione, verso il conferimento d’inesistenti ‘primati di scuola’, d’una scuola che, tuttavia, non è sperimentata in modo autentico; la qual cosa genera la contraffazione culturale e cultuale cui abbiamo fatto riferimento: sulla rete, sempre più di frequente, viene a mancare la visione storico-critica e analitica dei fatti, a vantaggio delle dinamiche momentanee volte a soddisfare la curiosità popolare o, diversamente, ad alimentare il traffico delle interazioni. N’è nata una tendenza informativa specifica – difficile definire tale comportamento in altro modo – battezzata con l’etichetta di recentismo: in pratica, la maggior parte dei ‘teoremi’ proposti e sviluppati – dalle origini di un virus a un caso di omicidio o a una scelta di politica economica – è del tutto priva dei necessari passaggi analitici e dimostrativi; anzi, in essi domina la costruzione enfatica. I gestori di Wikipedia, ‘libera enciclopedia’ online accusata spesso proprio di recentismo, pur mettendo il lettore in guardia dalle insidie generate dal metodo ‘libertario’[“le voci già presenti possono venire distorte dando maggior peso o un peso spropositato a un episodio che non è maggiormente rilevante (…)”; “le nuove voci possono essere create sulla base di premesse vaghe, esili e discutibili (…)”], mostrano un certo coraggio nel sostenere che il recentismo comporta dei vantaggi: essi consisterebbero nell’opportunità di documentare un numero quanto più elevato possibile di fatti nel minor tempo possibile, così da non ignorare eventi che, per esempio, fino a vent’anni fa, i più ignoravano.
A dire il vero, questa tesi difensiva appare debole e rende indifendibile la scelta, poiché autori e lettori, inconsapevolmente, diventano creatori di un’area della lingua di comunione che non esitiamo a giudicare per lo meno distopica. Infatti, la formulazione del giudizio e la sua rappresentazione concettuale adottata in condivisione di stati determinano, in breve tempo, aree linguistiche conflittuali, fatte di presupposizione e congetture, lontane dalla realtà. Se è vero che la nostra lingua è normata dalle grammatiche e descritta nei manuali di linguistica, è altrettanto vero che la sua dimensione di sussistenza appartiene all’aggregazione e alla condivisione. I parlanti, in altri termini, fanno esistere i significati. Un esempio eclatante? Yeshùa Christòs ha detto: “Chi non è con me è contro di me” (Mt 12, 30); ma sono numerosi coloro che, sulla rete, ne hanno attribuito la paternità a Benito Mussolini.
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