Noi e le emozioni digitali

Sui social network, avere la consapevolezza ed interpretare correttamente le nostre emozioni è tutt'altro che semplice, e da esse ci lasciamo coinvolgere facilmente senza rendercene conto

“L’emozione sorge laddove corpo e mente si incontrano” Eckhart Tolle 

 

Sappiamo per esperienza diretta che le emozioni bucano lo schermo del nostro televisore e del nostro computer, circolano nei nostri smartphone e nei social network sui quali, come si usa dire, stiamo. D’altro canto già prima dell’epoca digitale le emozioni entravano e uscivano dal ricevitore del telefono. O addirittura si addensavano vicino all’apparecchio telefonico nell’attesa della chiamata come magistralmente descritto da Roland Barthes nei suoi celebri Frammenti di un discorso amoroso. (1) 

“L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa di una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, all’infinito fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare (per non tenere occupato l’apparecchio)… Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono in mano”.

La prima domanda da porci non è dunque se le emozioni permeino o meno il digitale ma se ne siamo consapevoli, tanto di quelle che percepiamo quanto di quelle che suscitiamo. La risposta potrebbe sembrare scontata ma non lo è.

Una ricerca eticamente controversa ma scientificamente valida del lontano 2014 ha incontrovertibilmente confermato che le emozioni possono tranquillamente circolare inconsciamente sui social.

Lo studio, condotto manipolando il flusso di notizie di quasi 700 mila utenti di Facebook ha effettivamente dimostrato che il “contagio emotivo” si verifica anche a distanza. “Gli stati emotivi”, infatti, “si possono trasmettere per un fenomeno di contagio, inducendo altre persone a provare le stesse emozioni senza che ne siano coscienti”.

Insomma non solo, come aveva detto Freud più di cento anni fa, non siamo padroni in casa nostra, ma non lo siamo nemmeno sui social, dove possiamo cambiare a nostro piacimento la nostra casa e persino la nostra immagine con un paio di click. Naturalmente siamo soggetti al contagio emotivo anche nel quotidiano: in casa quando ci lasciamo irritare dal malumore dei nostri figli, al bar o al ristorante quando veniamo trascinati dall’euforia dei nostri amici/amiche, allo stadio o in una festa quando veniamo travolti da un miscuglio di emozioni che può oscillare dalla rabbia, alla frustrazione all’euforia. Anche in questi casi diveniamo spesso consapevoli solo a posteriori di quello che proviamo ma abbiamo almeno l’illusione di avere volontariamente deciso di essere in quei luoghi. Sui social possiamo per magia spostarci in pochi secondi dalla discussione da bar al dibattito accademico – che peraltro più di una volta sono la stessa cosa – alla seduzione del flirt, alla sdegno civico, alla passione politica, al gioco. Aver consapevolezza delle nostre emozioni sugli ottovolanti emotivi che chiamiamo social è tutt’altro che facile. 

Sempre ammesso dunque che ne diveniamo consapevoli, riusciamo poi a interpretare correttamente le nostre emozioni? Tsakiris constata ad esempio che le emozioni svolgono attualmente un ruolo decisivo anche nelle nostre decisioni politiche – tanto da parlare di emocrazia – ma che al tempo stesso non sappiamo esattamente riconoscerle (articolo). Veniamo perciò facilmente influenzati dalle etichette interpretative che altri (politici, intellettuali, mass e social media) mettono sulle nostre emozioni. Per non parlare del fatto che le emozioni, essendo informazioni spesso destinate all’azione immediata o addirittura di emergenza (fuga, attacco) sono spesso fallaci o illusorie inducendoci ad esempio a sovrastimare il pericolo o a sottostimarlo.

Ma perché sono così importanti le emozioni sui social network e perché ce ne lasciamo coinvolgere così facilmente senza rendercene conto? Credo ci possa aiutare ancora una volta Freud che individuava nei sogni ad occhi aperti ciò che ci accomuna allo scrittore e al bambino.  «Il poeta – sostiene Freud nel suo breve saggio “Il poeta e il fantasticare” – fa la stessa cosa del bambino che gioca; crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio, lo dota cioè di grandi investimenti affettivi e lo distingue rigorosamente dalla realtà”. Freud paragona dunque “il poeta al sognatore ad occhi aperti e le sue creazioni artistiche ai sogni diurni”. Cos’altro sono i contenuti dei social network, i nostri post, tweet, foto, immagini, se non sogni diurni? Grazie ai social siamo diventati tutti narratori di noi stessi, pubblichiamo senza editore, inseguendo lettori, che sono a loro volta narratori. 

È comprensibile allora che l’atmosfera in cui “siamo sui social network”, sia molto lontana, anzi esattamente l’opposto di quella descritta da Roland Barth in relazione all’attesa della telefonata dell’amato/a. Se l’angoscia dell’attesa esigeva che io me ne stessi seduto in una poltrona con il telefono in mano, l’eccitazione di narrare di me stesso, congiunta all’accelerazione insita nel networking, ci inducono all’azione irriflessa, tanto che la sospirata viralità del messaggio è l’esatto contrario della riflessione meditata. Presi dall’eccitante desiderio di raccontare agli altri noi stessi, la nostra vita, le nostre opinioni, le nostre passioni, rischiamo di non ascoltare, né tanto meno comprendere, le nostre emozioni più profonde e più vere. È senz’altro positivo che le emozioni vengano oggi espresse onlife in modo molto più aperto che in passato. Il rischio è tuttavia quello di comunicare le emozioni ancor prima di averle percepite e soprattutto comprese, onlife. 

Il ché non vuole affatto dire che non sia possibile percepire ed esprimere consapevolmente le nostre emozioni e i nostri sentimenti sui social network. Il sito HONY, Humans of New York rappresenta anzi “un ottimo esempio di come la narrazione della propria storia per immagini e parole sui social media abbia consentito di promuovere comportamenti funzionali al processo di riconoscimento e di comprensione delle emozioni altrui, all’alfabetizzazione emotiva appunto”. Il suo autore, Brendon Stanton, ha deciso di fare un censimento fotografico di New York, ha chiesto ai passanti di poterli fotografare, ha pubblicato le foto organizzandole secondo i quartieri e accanto ad ognuna ha postato una didascalia con uno stralcio della conversazione avuta con il soggetto della fotografia. 

Il problema che rende difficile il rapporto con le nostre e altrui emozioni non sono dunque i social ma la mancata consapevolezza delle emozioni stesse. Se vogliamo gestire le emozioni in modo sostenibile per noi stessi e per gli altri dobbiamo sforzarci di percepirle consapevolmente e di dar loro un nome, possibilmente corretto. Dobbiamo in fin dei conti fare con noi stessi e le nostre emozioni quello che Brendon Stanton ha fatto con i cittadini di New York: fotografarle, dialogare con loro, trovare un ordine secondo cui ordinarle e, poi, pubblicarle. 

 

(1) Barthes R., Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1979

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