La rivoluzione inesistente: l’italiano medio non sa presentarsi, non sa ‘leggere il web’

Se la rivoluzione digitale fosse stata tale da determinare un primato culturale attraverso la comunicazione totale ciò, in Italia, sarebbe visibile dai dati sul livello di scolarità e competenza digitale: la situazione fotografata, però, sembra essere molto diversa

Piansi et cantai lo stratio et l’aspra guerra, /
ch’i’ ebbi a sostener molti et molt’anni, /
et la cagion di così lunghi affanni, /
cose prima non mai vedute in terra /

P. Bembo, Piansi e cantai

 

Rivoluzione digitale”, “Primato culturale”, “Trionfo della comunicazione totale” e così via, fino all’estenuazione o, diversamente, allo stordimento: la rete è generosa con sé stessa, autocelebrativa, si rigenera in continuazione con delle formule di successo ed esaltazione, non altrimenti che se ripetere ossessivamente qualcosa facesse esistere il qualcosa stesso. Fare esistere il qualcosa: modesto filosofema da bancarella? Staremo a vedere. Per il momento, si accettano invettive d’ogni tipo. Una cosa è certa: la comunità virtuale, molto di frequente, intona il peana d’una guerra mai combattuta seguendo il capopopolo di turno, cosicché l’osservatore esterno, quello che riesce a mantenere la distanza di sicurezza, sulle prime, può essere tratto in inganno e credere a una sorta di palingenesi.

Il sostantivo “inganno” è un marcatore di contenuto bell’e buono; non lascia spazio alla speranza. Perché farne uso con tale spregiudicatezza? Se la rivoluzione digitale fosse stata tale da determinare un primato culturale attraverso la comunicazione totale, incrociando i dati prodotti dai vari enti di ricerca a proposito di scolarità e competenza digitale dovremmo averne prova.

Di conseguenza, senza esitare, consultiamo anzitutto l’ultimo censimento dell’ISTAT (2019), i cui dati, pur essendo, ormai, bell’e acquisiti costituiscono per lo meno causa di disagio: il 50,1% degl’italiani non va oltre la terza media. In particolare, il 29,5% possiede una licenza di scuola media e il 16% una licenza di scuola elementare, laddove la restante quota percentuale è priva di qualsivoglia titolo di studi. Se poi rivolgiamo l’attenzione al focus dell’analfabetismo funzionale, allora i numeri fanno anche paura: più del 70% della popolazione è “incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità (OECD, 1984)”. Il 18,6%, d’altronde, non ha aperto un libro nell’ultimo anno, non è andato al cinema, a teatro, a un concerto et cetera. Non sorprende, pertanto, l’esito del Programme for International Student Assessment (PISA, 2018), l’indagine condotta dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) con periodicità triennale per valutare il livello di competenze degli studenti. Lo studente italiano, in lettura, matematica e scienze, è ufficialmente inferiore alla media, giacché meno della metà dei partecipanti ha dimostrato di sapere risolvere problemi complessi.

Adottando un’altra unità di misura, l’istruzione universitaria, documentiamo tristemente che l’Italia è addirittura penultima al mondo con un misero 19,6%, battuta solo dal Messico col 18,3%. Il primato, in questo caso, spetta al brillante Canada, dove si registra un 59,4% di laureati, seguito dall’eccellente Repubblica di Corea col 50%.

Vien fatto di chiedersi, a questo punto, quale sia stata, finora, la politica economica di riferimento. In altri termini, quanto e in che modo i nostri governi hanno investito in educazione? Dalle risultanze dell’OCSE apprendiamo che l’Italia è ventunesima su 36 paesi in materia di investimenti per l’educazione con una spesa di 11.257 dollari per studente; la qual cosa, se messa in relazione con lo storico livello d’istruzione del nostro Parlamento, del quale di certo non possiamo vantarci, rivela un sistema di mediocrità allarmante.

Di sventura in sventura, giungiamo mestamente ai dati che riguardano internet e, in particolare, mediante il data navigation tree di EUROSTAT, al rapporto, che non possiamo non definire digitale, tra il cittadino e le istituzioni.

Non occorre avere chissà quale acume per analizzare l’istogramma suesposto: l’immagine è tragicomica, se commisurata alla spacconeria e alla goliardia di coloro che continuano a dire che siamo bravi e belli. In precedenza, proprio in questa rubrica, parlando di competenze digitali, abbiamo pubblicato un altro grafico tragicomico, quello del DESI 2020 (Digital Economy and Society Index) e abbiamo fatto notare che il nostro paese non occupa affatto una posizione di prestigio: basta cliccare qui per riesaminarlo.

Di fatto, dal punto di vista linguistico, per quanto ci impegniamo a descrivere i processi di inversione sintattica, la risemantizzazione, la suffissazione, la variazione diatopica o morfologica, i prestiti e tanti altri meccanismi di evoluzione della lingua, non possiamo ignorare che la nostra unità linguistica – senz’incomodare Dante col suo De vulgari eloquentia, citato per lo più a sproposito per accreditare tesi unitarie che l’autore non ha mai messe per iscritto – è molto ‘giovane’ e, per certi aspetti, si potrebbe definire immatura. Negli anni Sessanta del secolo scorso, l’80% degl’italiani parlava ancora in dialetto e la quota di dispersione scolastica era altissima, poiché l’obbligo scolastico, nonostante il dettato costituzionale, che garantiva fin dagli esordi repubblicani il diritto allo studio, era visto con sospetto: le famiglie lo giudicavano unicamente come sottrazione di forza lavoro. Tra le altre cose, solo nel 2007 l’età per l’obbligo è stata innalzata a 16 anni, così da garantire dieci anni di scuola. All’inizio degli anni Settanta, quindi, poco meno di cinquant’anni fa, il 25% degli italiani non era in grado di scrivere e parlare in italiano. In pratica, non esistevano gl’italofoni. Tullio De Mauro (1994, Come parlano gli italiani) ha documentato che, nell’epoca postunitaria, su 25 milioni di abitanti solamente 160.000 parlavano in italiano: in pratica, un palermitano e un milanese non si capivano.

Alla luce di queste acquisizioni, è preoccupante leggere sui social frasi come questa: “la tecnologia ha distrutto la cultura” o qualcos’altro di simile. Un po’ come dire che “il forno a microonde ha distrutto i dolci”. L’italiano medio non sa ancora usare il medium digitale e non è affatto in grado di presentare sé stesso nel contesto social di cui rivendica la signoria. Pertanto, il modo in cui si racconta e interpreta ciò che gli accade intorno è costantemente falsato.

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