Noi, gli altri e la fantasia digitale

Sui social network, abbiamo bisogno di una maschera che faccia vedere solo ciò che vogliamo mostrare all'esterno, per proteggere gli aspetti più delicati della nostra soggettività: questo equilibrio tra mondo interno ed esterno, però, presenta anche dei rischi

Immagine distribuita da Pixabay

“In ogni uomo è nascosto un poeta e l’ultimo poeta scomparirà solo con l’ultimo uomo”
Sigmund Freud 

Freud sostiene che i sogni diurni, “ad occhi aperti” siano l’anello di congiunzione, l’attività in comune, tra l’artista e tutti noi. Nella sua relazione “Il poeta e la fantasia” Freud afferma infatti che la capacità dello scrittore di affascinarci, suscitando in noi, con il suo racconto, partecipazione e commozione, derivi proprio dal fatto che anche in noi agisce un’attività di fantasticare simile a quella creativa del poeta. “In ogni uomo è nascosto un poeta e l’ultimo poeta scomparirà solo con l’ultimo uomo” osserva poeticamente Freud (1). Il poeta stesso – prosegue – è molto simile al bambino che gioca: come il bambino, il poeta crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio dedicandovi un grande investimento affettivo, sapendo però distinguerlo dalla realtà. La differenza sta nel fatto che il bambino “appoggia gli oggetti e le situazioni da lui immaginati alle cose visibili e tangibili del mondo reale. Questo appoggio e null’altro distingue il “giocare” del bimbo dal “fantasticare”.“ L’artista va invece al di là del reale, nella dimensione simbolica.

Freud prosegue poi osservando che “l’individuo crescendo smette [..] di giocare, e sembra rinunciare a conseguire il piacere che ritraeva dal giuoco.” In realtà “noi non possiamo rinunciare a nulla e solo barattiamo l’una cosa con l’altra”. “Cosi anche l’adolescente, quando smette di giocare, abbandona soltanto l’appoggio agli oggetti reali: invece di giocare ora fantastica. Egli fabbrica castelli in aria, costruisce quelli che si dicono sogni a occhi aperti. Io ritengo – continua Freud – che la maggior parte degli uomini in certi momenti si dedichi a fantasie.” La fantasia e il gioco sono dunque, pur nella loro diversità d‘aspetto, l‘una la continuazione dell‘altro e la loro radice è la stessa. L’atto creativo del gioco e dell’arte e il piacere creativo del fantasticare derivano dalla frustrazione. “L’uomo felice non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa. Sono desideri insoddisfatti le forze motrici della fantasia, e ogni singola fantasia è un appagamento di desiderio, una correzione della realtà che ci lascia insoddisfatti”. 

I social media sono divenuti lo spazio in cui mostrare ed esprimere non solo il nostro aspetto esteriore, ma anche la nostra interiorità

Cosa sono i social network se non l’appagamento dei nostri desideri insoddisfatti, la prosecuzione digitale dei nostri adolescenziali castelli in aria, il luogo di elaborazione dei nostri sogni diurni? Potremmo affermare che i social media sono divenuti lo spazio in cui mostrare ed esprimere non solo il nostro aspetto esteriore, ma anche la nostra interiorità. Come spesso accade, il digitale ha rimodellato i confini tra pubblico e privato ed ha al contempo ricombinato aspetti tradizionalmente separati della nostra vita pubblica e privata. Conosciamo da tempo immemorabile l’abitudine di curare e mostrare il nostro aspetto esteriore in occasioni pubbliche: la festa, la passeggiata, lo shopping, lo “struscio” in cui la gioventù del loco – e non solo quella – “tutta vestita a festa, … lascia le case, e per le vie si spande;/ e mira ed è mirata“. Eravamo invece abituati a riservare una più o meno discreta manifestazione della nostra interiorità a contesti privati, tradizionalmente ben definiti e almeno formalmente improntati a una certa riservatezza, peraltro molto relativa (il diario, la confidenza all’interno della coppia, della famiglia, della cerchia dei parenti, degli amici, dei colleghi). Erano tradizionalmente solo gli scrittori e più in generale gli artisti che si potevano permettere di mescolare a piacere vita pubblica e privata, destando non raramente proprio per questo scandalo. Ora tutti possiamo essere scrittori di tweet e post, artisti di immagini, in cui mostriamo pubblicamente la nostra vita privata, che dunque privata non è più, ma che desideriamo rendere pubblica nei tempi, nei modi e nella quantità che a noi aggrada. Siamo dunque i novelli divi e, da buoni divi, temiamo i paparazzi, ci dimentichiamo spesso però di essere i paparazzi di noi stessi. 

Abbiamo dunque bisogno di una maschera che faccia vedere solo quello che noi vogliamo mostrare, più propriamente di un sosia, un alter ego che ci rappresenti davanti agli altri, che sia al tempo stesso una parte di noi ma non tutto noi stesso. 

Abbiamo bisogno di una maschera che faccia vedere solo quello che noi vogliamo mostrare, più propriamente di un sosia, un alter ego che ci rappresenti davanti agli altri, che sia al tempo stesso una parte di noi ma non tutto noi stesso

Nel rapporto con gli altri sui social media abbiamo dunque quanto mai bisogno di quella che Jung ha chiamato “persona”, riprendendo il termine dal latino, termine con cui si indicava la maschera teatrale che nell’antica Roma serviva a connotare il ruolo del personaggio (il militare spaccone, l’avaro, la figlia da marito etc). La persona, secondo Jung, è la facciata sociale che l’individuo presenta al mondo, una funzione dell’io chiamata a gestire lo spazio tra sé e gli altri: «un tipo di maschera, disegnato da un lato per creare una precisa impressione sugli altri, e dall’altro per nascondere la vera natura dell’individuo» Jung (2) 

Anche il falso sé di Winnicott è, come la persona di Jung, una funzione dell’io che si colloca tra l’esperienza interna (intrapsichica) e il mondo esterno (intersoggettivo) e protegge il vero sé. Sia in Jung che in Winnicott tale funzione di mediazione tra interiorità ed esteriorità nasce dunque come difesa dell’io. 

I SN come Facebook e Twitter, in quanto tecnologie rivolte all’esterno, fanno proprio appello a tali funzioni di mediazione interno/esterno. Non è di per sé un problema che nelle relazioni online interagiscano per noi il falso sé o la persona. Sui SN così come in qualsiasi altra occasione pubblica tali funzioni dell’io vengono attivate appunto per proteggere gli aspetti più delicati e sensibili della nostra soggettività. L’equilibrio tra mondo interno e quello esterno è sempre molto incerto con la costante possibilità di scivolare nella patologia, da una parte se il falso sé o la persona acquisiscono troppo peso e visibilità, dall’altra se troppo materiale inconscio viene esposto ad uno sguardo esterno indelicato o addirittura ostile. I SN possono però incoraggiarci ad enfatizzare tali aspetti della nostra psiche a scapito di altri. “Il pericolo afferma Balick nel suo The Psychodynamics of social networking (3) non consiste nel fatto che gli altri credano che il falso sé sia la nostra intera psiche. Il pericolo più grave è che lo stesso individuo percepisca il proprio falso sé come reale“. L’attivazione di queste funzioni psichiche di interazione pubblica diviene cioè patologica quando l’individuo identifica l’intero sé con la persona ovvero quando il falso sé perde ogni relazione con il vero sé, che é quello originario e veramente creativo. La patologia comincia insomma quando pensiamo davvero di essere la nostra pic, la nostra bio, le immagini mirabili e levigate che pubblichiamo, le dotte citazioni che postiamo. 

(Continua) 

 

 

  1. Freud Sigmund, in: Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio: Il poeta e la fantasia, 1906 traduzione di Cesare L. Musatti, Bollati Boringhieri, ristampa 1997, p.49)
  2. Jung Carl Gustav, Due saggi di psicologia analitica, Opere, Vol. 7, a cura di Aurigemma L, Bollati Boringhieri, 1993
  3. Balick Aaron, The Psychodynamics of Social Networking, Karnac, 2014 

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