Semantica della relazione: la potenza mitologica delle Sirene giunge fino a noi

La potenza mitologica delle Sirene non si esaurisce nell'opera omerica, ma giunge fino a noi, estendendosi al mondo dei social network illustrandone la logica. Molto di frequente, infatti, ci lasciamo rapire dal bel canto, senza indagare la natura del suono

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Ora, le Sirene hanno un’arma ancora più terribile del canto,
cioè il silenzio. Non è certamente accaduto,
ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato
dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio

F. Kafka, Quaderni in ottavo, 1916-18

 

Coloro che si convincono d’essere bravi ad amare o, in generale, a fare qualcosa, molto di frequente, direttamente o indirettamente, si proclamano depositari d’una legge morale. La loro verità diventa l’unica possibile; l’altro che non si adegui è un vile offensore, un mentitore, un nemico. Costoro, in realtà, finiscono coll’essere i peggiori tra i generatori d’odio. Basterebbe pensare, invece, con Leopardi, anche solo per un istante, che una ginestra cresce pure tra le ceneri vulcaniche: “Qui su l’arida schiena / del formidabil monte / sterminator Vesevo, / la qual null’altro allegra arbor né fiore, / tuoi cespi solitari intorno spargi, / odorata ginestra, / contenta dei deserti” (La ginestra o il fiore del deserto).

La comunicazione è mossa anzitutto da un qualche desiderio di conoscenza, ma ciò stesso genera il dilemma: speranze e desideri non sono affatto strutturati sulle certezze

Se provassimo a togliere i complementi ai verbi, molto probabilmente scopriremmo chi vale davvero. “Io sono”, “Io amo”: “Cosa?” o “Chi?” qualcuno ci chiederebbe. Le domande sono legittime ed elementari. Di fatto, però, contengono speranze e desideri. La comunicazione è mossa anzitutto da un qualche desiderio di conoscenza, ma ciò stesso genera il dilemma: speranze e desideri non sono affatto strutturati sulle certezze. Eppure, tutti noi, stupidamente, abbiamo sempre bisogno di ottenere certezze. Per esempio, la chiacchiera – o la zizzania (si scelga liberamente) – sta tutta qui: nell’incapacità di contemplare i verbi, nella ricerca ossessiva dei sostantivi e nel lasciarsi intrappolare dagli aggettivi. Amori e alleanze finiscono a causa di significati impropri e, molto di frequente, inventati.

Se diciamo “Io penso che”, sappiamo già di provocare nell’altro un certo disagio perché i puri pensieri non sono sufficienti. Nello stesso tempo, tuttavia, anche solo dichiarare fedeltà ai puri pensieri, all’arte o alla poesia ci fa sentire nobili e con la coscienza a posto, come si suol dire. E se aggiungiamo “Pensare già è”? “Cosa?” qualcun altro chiederebbe. Forse, “Io penso che” e “Pensare già è” sono già un modo d’amare o fare qualcosa o semplicemente esserci. Il fatto è che tali forme non ci qualificano in alcun modo, anzi squalificano irrimediabilmente chi è sempre convinto di saper amare e saper fare. Non si tratta d’un rimando nostalgico alla figura di quel Socrate dell’Apologia di cui s’abusa e che dice οὕτω καὶ οἴομαι οὐκ εἰδέναι [oùto kai òiomai ouk eidènai: così io ritengo di non sapere (29b, trad. nostra)]. Ciò che c’interessa, semmai, è proprio il verbo, εἰδέναι (eidènai), cioè l’infinito perfetto di ὁράω (orào, io vedo). “Vedere” si usa per dire “sapere”. Come abbiamo scritto in “Tutti possono far parte della democrazia linguistico-digitale, ma la democrazia linguistico-digitale non è per tutti” , il vedere, per i Greci, era l’essenza del sapere. Di conseguenza, “io so” si rendeva con οἶδα (òida), cioè col perfetto di ὁράω (horào, io vedo): so perché ho visto. Socrate, a ben vedere, va molto oltre, è quasi spericolato: sa, quindi sembra aver visto, ma, di colpo, denuncia un non-aver-visto. Oppure, altrettanto coraggiosamente, si avvale della potenza del verbo, rinunciando all’oggetto ed esponendosi a quel rischio che, di fatto, lo conduce alla condanna e alla morte: è difficile a dirsi, ma la sua lezione e il dubbio ci bastano per istruire la nostra intera esistenza.

I parlanti digitali, ovverosia gli scriventi, hanno bisogno di oggetti: devono vederli, toccarli, sentirseli addosso, pur sapendo di non poterli vedere, toccare e sentire

In particolare, i parlanti digitali, ovverosia gli scriventi, diversamente hanno bisogno di oggetti: devono vederli, toccarli, sentirseli addosso, pur sapendo di non poterli vedere, toccare e sentire. Il bisogno è tale che, in caso d’assenza, un’assenza che resta tanto fittizia quanto lo sarebbe la presenza, hanno fame d’aria, anorgasmia, abulia. Ciò che conta è designarli, creare esemplari luoghi di giacenza e collocarveli, così da poterli prelevare alla bisogna. In questo modo, la pratica rituale è quella del giudizio da formulare senza tregua e a qualsiasi costo, alla ricerca del clamore e del consenso morboso: sui social network, per esempio, il filosofo si fa virologo contro qualsiasi principio morale e scientifico e il seguace ne approva pienamente l’agire perché la tensione viene scaricata immediatamente sui sostantivi in voga, che, a un certo punto, si sovrappongono pure alla persona e ai suoi atti. La lezione socratica è andata del tutto sprecata.

Il giudizio mediato dalla copula, purtroppo, ci permette unicamente di dedurre qualcosa, non di conoscerne la natura. Esso è improprio per costituzione. In amore, ci conduce a una sorta d’invecchiamento precoce; ci fa passare di deduzione in deduzione, occultando forme, lineamenti, sguardi e perfino la memoria d’un bacio. Il Christòs stava coi reietti; noi, per lo più, gli rivolgiamo ammirazione, ma, da ultimo, abbiamo bisogno di persone rassicuranti e per bene perché è molto comodo ripiegare su legami facili e rassicuranti. I nostri bisogni diventano misura delle cose. Il rimpianto potrebbe farsi serpentino, ma ci si affida al tempo. Deprecare chi prova ad amare o semplicemente a ‘fare’ nell’assenza è atto ‘terapeutico’. Tutt’altra storia sarebbe, infatti, abitare i luoghi in cui il mondo scompare e i predicati non hanno nomi. Ma questa storia non è da non raccontarsi.

Fin da piccoli, siamo indottrinati con malevolenza nell’arte patetica dell’ammirazione e dello scimmiottamento, che altro non è, se non una variante della pusillanimità e della pigrizia: si esalta ciò che resta a debita distanza da noi e che, per ciò stesso, appare elevato e nobile. Ripetiamo sempre sottovoce l’unica predica imparata a memoria ai tempi del ‘catechismo’. C’è sempre un maestro togato a puntare il dito contro qualcuno: sparare a vista! Quante bocche slargate, ma non a suggere l’una dall’altra teneri baci! Abramo continua imperterrito a negoziare la pace per Sodoma e Gomorra. Sulla scena irrompono Papageno e Papagena, recando sulle spalle lo stanco fantasma di Mozart, ma stramazzano al suolo in pochi secondi. Il povero Faust si redime, ma il suo anelito si perde nel nulla. Ogni parola in eccesso, ogni sguardo mancato, evitante o parziale e ogni stratagemma messo a punto per nascondere le nostre deficienze rappresentano un sovrappiù di senescenza per il nostro corpo, che perde il contatto col mondo, s’impigrisce e si consuma in privazioni e precetti, omissioni e melliflue litanie.

Queste figure costituiscono non solo l’archetipo della brama di conoscenza, ma anche e soprattutto quello dello smarrimento esistenziale, del rischio connaturato nella conoscenza stessa

La potenza mitologica delle Sirene, di fatto, non si esaurisce nell’opera omerica, ma giunge, per metafora, fino a noi, si estende ampiamente al mondo dei social network illustrandone la logica. Molto di frequente, infatti, ci lasciamo rapire dal bel canto, senza indagare la natura del suono. Le Sirene, figlie di Acheloo e Melpomene, sono note a tutti noi per la loro capacità di sedurre i marinai causandone la morte. Queste figure, che s’impongono all’uditore col suono della cetra, con quello del flauto e col canto, costituiscono non solo l’archetipo della brama di conoscenza, ma anche e soprattutto quello dello smarrimento esistenziale, del rischio connaturato nella conoscenza stessa.

Il loro etimo è incerto: una tra le tesi accreditate sembra essere quella secondo cui σειρῆνες (seirènes) provenga da σειρά (seirà, corda), pertanto sirena significherebbe colei che lega o incatena (Cfr., Treccani) Insomma, la bellezza e la percezione che ne abbiamo non sono sufficienti a generare benessere. Com’è risaputo, Odisseo resiste al loro tentativo di seduzione fatale facendosi legare all’albero della nave. Egli ordina ai compagni di turarsi le orecchie con la cera, ma non fa lo stesso per sé: resta legato per ascoltarle. Dunque, Odisseo non rinuncia alla conoscenza, ma è cauto, ascolta il consiglio di Circe.

Nell’Odissea, si legge:

Οὐ γάρ πώ τις τῇδε παρήλασε νηὶ μελαίνῃ, / πρίν γ᾽ ἡμέων μελίγηρυν ἀπὸ στομάτων ὄπ᾽ ἀκοῦσαι: Ou gar po tis tède parèlase neì melàine, / prin g’hemèon melìgeryn apò stomàton op’akoùsai [Nessuno mai passa di qui con la nera nave / che il suono prima non oda che sorge / a noi dalla bocca  (Odissea, XII, 186-188, a cura di E. Cetrangolo, 2000, Fabbri, Milano, pp. 370-371)]

Di solito, ci affanniamo a nascondere nel linguaggio la maggior parte dei nostri impulsi e dei nostri desideri, così da generare un’area d’incomprensione e ambiguità tra chi ci sta attorno e noi stessi. Ne consegue, anzitutto, che il primo disagio della comunicazione si manifesta nel linguaggio stesso e, in particolare, in quello dell’informazione, dato che la nostra esistenza sociale si compie e si consuma unicamente attraverso ciò che apprendiamo dall’ambiente circostante. Tizio dice a Caio: “Ti è piaciuto il discorso del presidente?”. Caio risponde: “Sì, certo! Il presidente ha mostrato grande sagacia”. E Tizio, ormai su tutte le furie oppure profondamente deluso: “Com’è possibile? Se non lo hai neppure ascoltato… Tu dici sempre che tutto è bello e interessante!”. Lo scambio che abbiamo appena letto prende il nome di disconferma (WATZLAWICK, P., HELMICK BEAVIN, J., JACKSON, DON D., 1967, Pragmatics of human communication, trad. it. di M. Ferretti, 1971, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio Ubaldini, Roma, p. 76), termine con cui Watzlawick et al., indicano il deterioramento della comunicazione all’interno delle relazioni complementari, in cui uno dei due interlocutori, in posizione di superiorità, mostra all’altro una certa indifferenza, spingendo sempre più l’altro verso l’alienazione. Adesso, prestiamo attenzione ad un altro fenomeno che Watzlawick et al. hanno dedotto dall’analisi della coppia, ma che qui estendiamo alla politica sociale, per così dire. Il presidente dello Stato X: “Noi attacchiamo lo Stato Y perché è responsabile dei recenti atti di terrorismo in casa nostra.”. Il presidente dello Stato Y: “Noi abbiamo dovuto adottare misure straordinarie e poco ortodosse contro lo Stato X perché siamo bersagli dei loro attacchi e della loro politica imperialistica.” (Cfr, ibid., p. 49). Il circolo vizioso può continuare senza tregua e, soprattutto, senza soluzione, fuorché intervenga, per l’appunto, un mediatore esterno – l’ONU, per esempio – a portare l’interazione sul piano della metacomunicazione, ovverosia su quello della semantica della relazione; il che, oltre a rappresentare un caso piuttosto diffuso, è descritto con chiarezza nel terzo assioma della comunicazione formulato dagli autori della Pragmatica della comunicazione umana:

“La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti”(ibid., p. 51)

Se, tuttavia, il mediatore esterno non è ‘del tutto estraneo’ ai fatti, essendone, al contrario, condizionato, allora il rischio reale è quello di un sovraccarico di vuoti della comunicazione e dell’informazione. È dunque possibile ripensare e riproporre il piano della metacomunicazione?

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