La proposta di pianificazione urbana più discussa del momento, fra utopia e sogno, è la “città dei 15 minuti”. Si tratta di un’espressione felice, coniata dal direttore scientifico della Sorbona Carlos Moreno e usata per indicare un nucleo urbano costruito a partire dalla capacità di spostamento autonomo dei cittadini. In tale città, tutti i servizi essenziali sono raggiungibili in 15 minuti, a piedi o tramite mezzi di mobilità morbida (come la bicicletta). Se nella smart city era la città stessa ad essere centrale, dunque, nella città dei 15 minuti l’attenzione è posta sull’uomo e sui suoi bisogni.
Durante gli anni ’90 si pensava che occorresse moltiplicare i mezzi di trasporto; ora, invece, l’approccio è cambiato: le persone devono poter lavorare, rifornirsi e divertirsi nel massimo raggio di un quarto d’ora; un obiettivo raggiungibile grazie a specifici hub di quartiere.
Se la città deforma il nostro senso del tempo
Le città del ‘900 erano funzionali: presentavano una zona per il lavoro e una per vivere, con aree di pendolarismo estese. Tale separazione delle funzioni si è imposta con lo sviluppo dei trasporti (dalle ferrovie agli autoveicoli); oggi, però, non c’è più l’esigenza dello spostamento: le zone lavorative non sono affatto invivibili, come accadeva per il circondario delle fabbriche; sono anzi ottime aree residenziali.
Poste queste premesse, i perché del passaggio alla città in 15 minuti sono stati spiegati da Moreno durante il TED Talk registrato per presentare l’idea: “Per troppo tempo quelli di noi che vivono in città, grandi e piccole, hanno accettato l’inaccettabile, ossia che le città deformassero il nostro senso del tempo. Ne abbiamo sprecato tantissimo solo per adattarci ad un’organizzazione assurda e a lunghe distanze”.
Il docente franco-colombiano ha elencato le tre caratteristiche chiave che ogni città dovrebbe possedere: il ritmo della vita dovrebbe essere proporzionale alle capacità degli esseri umani; ogni metro quadrato dovrebbe servire a più scopi; infine, i quartieri dovrebbero essere progettati per permettere agli umani di lavorare e divertirsi senza spostarsi. Secondo Moreno, dunque, la città dovrebbe rispondere ai bisogni degli uomini, in modo da non costringerli più ad adattarsi ad uno modello insostenibile di centro urbano.
Una terza via fra domicilio e pendolarismo
Attenzione, però: è importante non confondere il modello dei 15 minuti con lo scenario imposto dalle restrizioni pandemiche, in cui le attività quotidiane e lavorative sono state spostate entro il perimetro delle mura casalinghe.
La città dei 15 minuti non significa reclusione, ma è anzi una terza via fra domicilio e pendolarismo: una città in cui, volendo, abbiamo i servizi vicini
La città dei 15 minuti non significa reclusione, ma è anzi una terza via fra domicilio – dunque chiusura in casa – e pendolarismo: una città in cui, volendo, abbiamo i servizi vicini. Non è una comunità chiusa ma, al contrario, lascia aperte le reti lunghe. Pur avendo a disposizione servizi di prossimità, i cittadini possono muoversi per usufruire di offerte differenti. Il movimento, però, rimane sempre intenzionale e non obbligatorio.
Fra i vantaggi, c’è sicuramente una migliore accessibilità ai servizi che, per loro natura, possono essere distribuiti per il territorio, come quelli di tipo lavorativo. La distribuzione, infatti, permette di abbattere il pendolarismo in entrata e uscita nelle ore di punta, senza però bloccare gli spostamenti.
I possibili contro: dalla chiusura alle differenze di classe
Veniamo ai contro. Prima di tutto, occorre ricordare che le innovazioni urbane possono creare diffidenza fra i cittadini, che potrebbero percepirsi come messi in secondo piano rispetto all’innovazione. Per mantenere l’uomo al centro del discorso occorre non pensare la tecnologia come fine in sé, ma come strumento per generare città eque e inclusive. È evidente che la progettazione urbana debba essere condotta secondo meccanismi semplici, che mirino a rendere i cittadini consapevoli della necessità di modelli sostenibili, senza alcuna imposizione dall’alto.
Ma un rischio c’è: quello che la curiosità dei cittadini sia inibita. La disponibilità dei servizi potrebbe portare alla chiusura degli abitanti in un determinato nucleo urbano, causando la perdita dell’interesse verso l’esplorazione del territorio, fondamentale nelle grandi città.
Un altro contro da tenere a mente, infine, è il possibile instaurarsi di nette differenze fra classi sociali ricche e povere. Le famiglie più agiate potrebbero finire per vivere in contesti ottimali, mentre le più povere in quartieri sprovvisti di servizi. Si tratta di un ostacolo che può essere superato solo pensando la città come solidale e non trascurando alcuna categoria sociale.
La sfida è quella di garantire la connessione fra nuclei e un sistema di accessibilità forte alla base di ogni nuovo sistema urbano
Secondo Gianfranco Fancello – docente all’Università degli studi di Cagliari – per evitare che si incorra in tali svantaggi è bene tenere a mente che il modello funziona solo se i nuclei rimangono interconnessi in una rete di collegamenti. “Purtroppo non possiamo pensare di localizzare tutti i servizi importanti: non è possibile mettere una grande università in ogni quartiere, né un grande ospedale; possiamo invece inserirli solo in alcuni poli che devono essere altamente connessi. È proprio questa la sfida: occorre garantire la connessione fra nuclei e un sistema di accessibilità forte alla base di ogni nuovo sistema urbano”.
Ripensare lo smart working, partire dai dati
Un punto centrale nelle trasformazioni delle città dei 15 minuti sarà rappresentato dallo smart working. Ad oggi, il modello di lavoro ibrido raccoglie più consensi fra i cittadini, in quanto coniuga alla mancanza dell’obbligo di recarsi in ufficio (che porta con sé un quotidiano pendolarismo forzato) il mantenimento di una dimensione relazionale. Nello smart working dei 15 minuti, però, la scelta non si ridurrà al binomio “lavorare da casa” e “lavorare nella sede aziendale”, ma ci saranno nuove possibilità come il lavoro remoto in sedi non aziendali: gli spazi di co-working intermedi fra casa e azienda, infatti, saranno uno dei punti centrali degli hub cittadini.
Anche Fancello crede che la città dei quindici minuti favorisca modelli di lavoro sostenibili: “La pandemia ci ha insegnato che lo smart working è possibile. Non penso che in futuro ci sarà un’eccessiva radicalizzazione del lavoro da casa, ma credo allo stesso modo che la palazzina aziendale, in cui tutti i lavoratori lavorano nella propria stanza senza relazioni e comunicazione, sia ugualmente disfunzionale. La migliore soluzione è il modello misto, in cui lo smart working diventa volontario e unisce esigenze personali e lavorative. In questo senso, la città dei 15 minuti può aiutare la valutazione congiunta di azienda e lavoratore su quale sia la soluzione migliore, garantendo l’accessibilità per tutti.”
La migliore soluzione è il modello misto, in cui lo smart working diventa volontario e unisce esigenze personali e lavorative. In questo senso, la città dei 15 minuti può aiutare la valutazione congiunta di azienda e lavoratore su quale sia la soluzione migliore, garantendo l’accessibilità per tutti
Affinché la nuova pianificazione urbana sia il più efficiente possibile, occorrerà partire dall’ascolto dei cittadini, realizzabile tramite il monitoraggio e l’acquisizione di dati. I dati permettono di leggere la città e di immaginare un gemello digitale degli ambienti in cui viviamo; ecco perché sono un’importante fonte di indicazioni per i pianificatori urbani. Oltre che dagli oggetti, una grande quantità di informazioni può essere estratta dalle piattaforme locali – come quelle nate in forma operativa durante il lockdown – che forniscono indicazioni utili per migliorare il territorio e la vivibilità dei servizi.
Ovviamente, perché tutto questo funzioni, sarà necessaria una sistematica raccolta di open data e la collaborazione delle amministrazioni; serviranno poi sistemi di geolocalizzazione sviluppati, sensori e connettività continua, garantita dall’equa diffusione di 5G e banda ultra larga.
Un’utopia già reale: esempi di città dei 15 minuti
Fra i centri urbani che si sono avvicinati al modello città dei 15 minuti, Parigi è stato fra i primi: ha raddoppiato le strutture per la mobilità dolce e ha promosso le piccole attività incentivando il commercio al dettaglio. Il Comune, infatti, mette a disposizione dei dettaglianti vecchi edifici per garantire relazioni reali fra commercianti e acquirenti.
In realtà, le città dei 15 minuti già esistono, ed è stato possibile accorgersene grazie ad uno studio di Sony Lab. A marzo 2021 l’azienda ha avvitato una piattaforma web per l’accumulo di dati tramite Gps, da cui è emerso che ogni città ha in sé una città dei 15 minuti ed è il centro storico (che spesso, infatti, ospita le strutture lavorative).
Esempi interessanti arrivano, poi, da Spagna e Olanda: a Barcellona esistono i superblocks, quartieri autonomi ma connessi tra loro con un traffico su gomma limitato; a Copenaghen, invece, esiste il quartiere 5 minutes to everything, in cui ogni servizio può essere raggiunto in bici. Fuori dall’Europa, i due “Quartieri in 20 minuti” di Portland e Melbourne seguono un piano che, fino al 2050, riorganizzerà tutta la città per una sostenibilità energetica e sociale di lungo periodo.
Ma alle sfide della sostenibilità urbana possono contribuire sia il pubblico che il privato. Esemplificativa, in questo senso, l’azienda Voi Technology, che si batte per una città dei 15 minuti realizzata attraverso la multimodalità dei trasporti. L’utilizzo di un monopattino, ad esempio, sarebbe un ottimo supporto, in quanto permetterebbe di ottimizzare i tempi e compenserebbe le difficoltà dei tratti a piedi più difficili.
Dall’Europa al resto del mondo, il punto fermo di queste iniziative è il pianificare le aree urbane in base alle necessità delle persone. Senza dubbio, il modello della grande città è in crisi, e concentrare i servizi in pochi luoghi – quando potrebbero essere distribuiti – non è più funzionale. Ecco perché la città dei 15 minuti è un importante passo verso la sostenibilità.
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