Perché non diciamo “Laura sta stando male”. Azionalità e aspetto del verbo

Indagare l'azionalità e l’aspetto dei verbi consente di comprendere il modo in cui le persone si raccontano, descrivono i propri gusti, i propri desideri

Immagine distribuita da Pixabay

È il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha reso la tua rosa così importante

A. de Saint-Exupéry, Il piccolo principe

 

Direste mai “Laura è caduta per tre ore”? Sicuramente, no. Come si suol dire, ‘suona male’; qualcosa, in questa frase, delude le nostre aspettative, quand’anche il destinatario, lettore o ascoltatore che sia, non abbia alcuna competenza grammaticale. Dunque, oltre a non pronunciare mai tale sequenza di parole e, soprattutto, di sintagmi, se la sentiste pronunciare a qualcuno, rilevereste un’anomalia determinante, come se si attivasse un allarme linguistico. Di qua dall’ovvia imprecisione logica del costrutto, fin qui, abbiamo introdotto – e messo in evidenza col corsivo – due concetti, quello dell’aspettativa e quello della sequenza, che sono meno banali di quanto, in apparenza, si possa immaginare. Avere delle aspettative, con riferimento al linguaggio, significa predisporre dei moduli di espressione o comprensione coi quali sia possibile riconoscere le intenzioni del nostro interlocutore, anche quando questi non espliciti interamente tutti i contenuti del discorso. Se chiediamo a qualcuno “tutto ok oggi?”, chi ci ascolta, in pratica, fa immediatamente una serie di deduzioni legate, per esempio, allo stato d’animo, al lavoro et similia. Di fatto, la sequenza interrogativa tutto-ok-oggi viene trasferita sul piano dell’aspettativa e del codice di comunione tramite un meccanismo inferenziale che rende tutto possibile.

Nel caso di “Laura è caduta per tre ore”, invece, il processo inferenziale viene interrotto. Trattandosi di un caso semplice, forse, stentiamo a intuire l’importanza del fenomeno. Cos’è accaduto? Il modificatore “per tre ore”, che esprime il tempo continuato, se associato col verbo cadere, produce una disfunzione. Diverso risultato avremmo ottenuto, se avessimo usato il tempo determinato: “Laura è caduta alle 8”. Ciò accade perché il verbo cadere non è durativo, anzi, è culminativo e i culminativi non possono avere una durata; la sua semantica, insomma, è fatta in maniera tale da ammettere alcune modificazioni avverbiali ed escluderne altre. “Be’, logico e risaputo!” potrebbe ribattere qualcuno, aggiungendo che “non è necessario parlare di durata e culmine per evitare certi errori”. Siamo d’accordo. E qui sta l’elemento più interessante di tutta la faccenda. I parlanti, quand’anche non siano in possesso di competenze grammaticali o semantiche, non dicono “ti amo alle 8 del mattino”; non lo dicono perché, pur non sapendo che amare è un verbo stativo e, di conseguenza, durativo, non dinamico e atelico (spiegheremo più avanti di cosa si tratta), sono perfettamente in grado di collocarsi nello spazio-tempo del discorso; la qual cosa non ha niente a che vedere con le grammatiche.

La domanda, a questo punto, potrebbe essere la seguente: “Che ce ne facciamo?”, ovverosia “Quanto è utile conoscere la semantica dei verbi e la loro natura flessionale, in specie nell’ambito di un progetto di sostenibilità digitale? Proviamo a rispondere procedendo per gradi di esplicazione. Se facciamo un’indagine, per esempio, sull’uso dei tempi relativi nelle subordinate, molto probabilmente, scopriamo poco in termini di sostenibilità narrativo-digitale (non è del tutto così, ma stiamo ragionando in termini quantitativi). È ormai noto che l’utente medio per lo più trascura la giustapposizione tra futuro e futuro anteriore o quella tra passato remoto e trapassato remoto: “ne parleremo, dopo che avrai studiato”; “ne parlammo, dopo che ebbe studiato” e così via. Futuro anteriore e trapassato remoto sono, per l’appunto, tempi relativi in quanto legati a una sovraordinata. Tra le altre cose, è altrettanto noto che il passato remoto viene di solito sostituito dal passato prossimo per istinto di semplificazione. Ma questa è già un’altra storia. Se, dunque, diversamente, spostiamo il focus della nostra indagine sperimentale e ci dedichiamo all’azionalità e all’aspetto dei verbi, possiamo tentare di capire il modo in cui la gente si racconta, descrive i propri stati d’animo, i propri gusti, i propri desideri et cetera.

L’azionalità è una proprietà dei verbi che ne indica la qualità ed è del tutto indipendente dal tempo e dalla coniugazione. Essa ci indica, in sostanza, il modo in cui si denota un evento linguistico ed è una caratteristica esclusivamente semantica. Nel 1957, su The Philosophical Review (LXVI, 1957, pp. 143-160), Zeno Vendler, per la prima volta, affrontò il problema della classificazione dei verbi secondo il principio di azionalità. Dieci anni dopo, nel 1967, l’articolo venne modificato e ampliato in Verbs and Times, Linguistics in Philosophy [Ithaca (New York), Cornell University Press]. In Italia, invece, resta insuperabile, a nostro avviso, il lavoro di Pier Marco Bertinetto, pubblicato dall’Accademia della Crusca, Tempo, aspetto e azione nel verbo italiano (1986). Naturalmente, la bibliografia è vasta; qui, ci limitiamo a dare solamente dei riferimenti volti a orientare il lettore a un primo approccio alla disciplina.

Secondo la summenzionata classificazione, che proponiamo direttamente in lingua italiana per agevolare la lettura, i verbi si suddividono in:

  1. STATIVI: amare, credere, avere et cetera (significazione di uno stato);
  2. DI ATTIVITÀ: camminare, correre, piangere et cetera (significazione di un evento in un tempo indefinito);
  3. RISULTATIVI: imparare, invecchiare, salire et cetera (significazione di un cambiamento di stato);
  4. CULMINATIVI: trovare, scoprire, arrivare et cetera (significazione di un rapido cambiamento di stato)

Ci si rende conto facilmente che il concetto di azionalità è legato alla natura lessicale del verbo, al suo significato intrinseco. A propria volta, l’azionalità di un verbo presenta un tratto aspettuale che – questo sì – dipende dal tempo e dalla coniugazione, anche se non sulla base della morfologia cui siamo abituati. In sostanza, prendendo in considerazione l’aspetto di un verbo, non valutiamo la collocazione dell’evento linguistico, passato, presente o futuro, rispetto al momento di enunciazione; ne valutiamo, invece, la fenomenologia, la compiutezza o l’incompiutezza. Infatti, l’opposizione principale che documentiamo in merito è quella che si stabilisce tra imperfettivi (azione incompiuta) e perfettivi (azione compiuta).

CESARE SCONFISSE VERCINGETORIGE (aspetto perfettivo)

LAURA LEGGEVA (aspetto imperfettivo)

Ma non si deve commettere l’errore di credere che solo l’imperfetto indicativo renda il valore imperfettivo:

LAURA CAMMINA, costruita col presente indicativo, ha un valore altrettanto imperfettivo ed evidentemente durativo. Il presente, pertanto, è per lo più imperfettivo, ma non di rado ha dei tratti perfettivi, in specie nelle narrazioni, in cui si può usare in sostituzione del passato remoto.

Non abbiamo affatto dimenticato di dovere rispondere alla domanda “che ce ne facciamo?”. Stiamo solo procedendo per gradi, come s’è detto in precedenza. Abbiamo appena fatto notare che “cammina” esprime l’aspetto durativo, giacché non conosciamo né intuiamo il compimento dell’azione, laddove, al contrario, SCONFISSE, è limpidamente momentaneo o conclusivo. Allo stesso modo, la frase di apertura, opportunamente emendata dell’anomalia sintattica, “Laura è caduta”, presenta un verbo momentaneo. Resta da chiarire la differenza tra verbi telici e atelici. Considerando che τέλος (tèlos), in greco, significa fine, non è difficile comprendere che i verbi telici sono quelli caratterizzati da un fine, come arrivare, scoprire et similia, mentre quelli atelici sono privi di un fine, come camminare, dormire et similia. Questi concetti costituiscono la base semantica in funzione della quale diciamo “Laura sta stagliando il prosciutto”, ma non diciamo “Laura sta stando male”.

La dialettica oppositiva, in realtà, è più antica di quanto si possa immaginare, compiendosi in modo esemplare nel passaggio dall’indoeuropeo al greco: κέκτημαι (kèktemai), perfetto risultativo di κτάομαι (ktàomai), si traduce con “io possiedo”, non già con “ho acquistato”, come si potrebbe ipotizzare in relazione al presente, il già riportato ktàomai, che significa “acquisto”. La compiutezza del verbo è la compiutezza dell’azione: io possiedo qualcosa proprio perché l’ho acquistato. Non a caso, nella lingua greca, il passato si esprimeva concretamente solo all’indicativo ed era stato acquisito unicamente attraverso la marca temporale dell’aumento. E qui ci fermiamo, poiché il discorso comincia a farsi molto complesso e, in parte, ad allontanarci dal nostro obiettivo, che è quello di rispondere alla domanda “che ce ne facciamo?”.

Allo scopo di rispondere nitidamente e nettamente a questa domanda, abbiamo deciso di analizzare tre titoli di tre diversi giornali: Corriere della Sera, la Repubblica e Il Sole 24 Ore, tutti e tre del 27 aprile 2022.

“Combatto con Kiev”: verbo di attività, durativo, dinamico, atelico.

“Si unisce alla resistenza”: “unirsi” sembrerebbe un verbo di attività, ma, se consideriamo il contesto e, di conseguenza, il cambiamento di stato (dalla fazione russa a quella ucraina), interno al verbo stesso, allora lo riclassifichiamo come risultativo, non durativo, dinamico, telico.

“Blocco gas è ricatto”: stativo, durativo, non dinamico, atelico.

Con una tabella, riusciremmo sicuramente a fornire una resa più chiara di ciò che emerge dall’analisi dei tre titoli. Per motivi di spazio, ne facciamo solo una sintesi. Sulla base delle occorrenze esaminate, prevalgono indubbiamente delle condizioni di dinamicità, atelicità e duratività: si badi bene all’espressione “condizioni di (…)”! In altri termini, in questo modo, siamo in grado di osservare il comportamento linguistico dell’informazione italiana in merito a questo o a un qualsivoglia altro focus. Ovviamente, qualora volessimo fare un’indagine vera e propria, non potremmo accontentarci di tre titoli né potremmo ridurre la risultanza all’individuazione di azionalità e aspetto, ma confidiamo d’avere per lo meno risposto alla tormentosa domanda.

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