Un futuro sostenibile per la moda

Il fenomeno della "fast fashion", molto legato al mondo dei social network, pone importanti questioni ambientali e sociali. Un modello differente è però possibile, ed è legato ad una visione sostenibile ed etica della moda, che richiede anche il contributo di ognuno di noi

Immagine distribuita da Rawpixel con licenza CC0

È di questi giorni la notizia su vari giornali, peraltro cosa già apparsa anche in passato, delle conseguenze della fast fashion nell’inquinamento del mondo. Come riportato dal sito  Dee Jay del 19 dicembre 2021, “le dune nel deserto di Atacama sono la discarica dei vestiti usati. Come altri settori dell’industria la moda ha grandi responsabilità in fatto di inquinamento: nel deserto di Atacama in Cile le dune sono ricoperte da tonnellate di vestiti invenduti e scartati.. qui giacciono almeno 39mila tonnellate di maglioni, jeans, t shirt provenienti soprattutto dai mercati occidentali, dopo essere stati indossati per breve tempo e scartati o semplicemente non essere stati venduti.. Queste sono le conseguenze del fast fashion, la moda usa e getta grazie al quale la produzione di abbigliamento è aumentata a dismisura negli ultimi anni a partire dai primi 2000”. Marchi come Zara, H&M, Primark ed altri riescono ad offrire ai propri clienti capi alla moda accessibili a tutte le tasche, ma la cosa negativa è che questo avviene grazie allo sfruttamento dei lavoratori e all’incredibile impatto sull’ambiente.

Nel 2013, come tutti sappiamo, ci fu il crollo del Rana Plaza di Savar in Bangladesh a Dacca, un cedimento strutturale di un edificio commerciale di otto piani che provocò la morte di 1129 lavoratrici e lavoratori di questa che era una fabbrica tessile che lavorava per i grandi marchi della moda. In quel momento si diffusero molte discussioni sulla responsabilità sociale delle imprese attraverso le catene globali di fornitura, ma di fatto senza nessun provvedimento concreto.

Come ricorda il Daily Mail del 28 gennaio 2022, “Ogni anno l’industria del fast fashion richiede 93 miliardi di metri cubi d’acqua sufficienti per soddisfare le esigenze di circa 5 milioni di persone. Gli ambientalisti affermano che l’industria è responsabile di circa il 20 per cento dell’inquinamento delle acque industriali a causa del trattamento e della tintura dei tessuti. Ci sono anche problemi con i materiali e i proventi come la produzione di cotone, che utilizza il 6 per cento dei pesticidi mondiali e il 16 per cento degli insetticidi”.

Il problema della fast fashion è molto legato ai social, che con i loro influencer stanno trasformando i cicli stagionali della moda in cicli settimanali, o anche più corti, in un delirio purtroppo seguito da milioni di follower che causa questo spreco dato dalla iperproduttività delle industrie, che seguono questi ritmi accelerati indotti artificialmente. 

Ma è possibile un modello differente? Sì, senz’altro: il discorso rientra in una visione sostenibile ed etica della moda, così come sta già avvenendo in altri settori.

È il caso di GOEL, “un gruppo di cooperative sociali che ha dato vita ad una comunità di riscatto iniziando un’avventura piena di speranza volta a cambiare la Calabria in diversi modi e in diversi ambiti. Ad un certo punto di questo percorso, alcune giovani donne calabresi si sono rivolte a GOEL: volevano salvare l’antica e prestigiosa tradizione della tessitura a mano che stava naufragando nell’oblio. In Calabria la tessitura affonda le sue radici nella Magna Grecia e fino a cinquanta anni fa molte famiglie calabresi possedevano un telaio a mano in casa e autoproducevano gran parte dei propri tessuti. Le giovani donne che si rivolsero a GOEL decisero di recarsi dalle poche anziane majistre ancora viventi nel territorio. Le majistre non sono semplici tessitrici, ma erano le maestre che programmavano, imbastivano, tutti i telai a mano del territorio. Un arte complessa e sofisticata: nei telai vi sono fino a 1800 fili di ordito che bisogna far passare nei ‘licci’ in un preciso ordine matematico per produrre un determinato tipo disegno di tessuto”.

Tutta questa tradizione sarebbe stata perduta se GOEL tramite il suo marchio di moda Cangiari (in idioma calabrese significa cambiare) non avesse recuperato la tradizione orale delle nenie e delle cantilene nei cui versi era contenuto l’ordine matematico del passaggio  dei 1800 fili nei licci e messa su carta tramite questa nuova generazione di donne, preservando cosi un grande patrimonio di tessuti di matrice grecanica e bizantina. Oggi Cangiari è un marchio di alta moda riconosciuto a livello nazionale e internazionale per via della qualità e dell’estetica dei suoi manufatti. Esempio “di etica nella filiera della produzione, filiera cooperativa e partecipata dagli stessi lavoratori, luogo sociale di inserimento lavorativo anche di persone svantaggiate. Etica nel messaggio del brand, un lifestyle raffinato, ma che si fonda su i valori di GOEL e sulla sostenibilità ambientale e sociale”.

Insomma, un altro mondo è possibile, e la prossima volta che vorremo comprare una t shirt, se costa 2 euro, domandiamoci quello che c’è dietro la sua produzione. La responsabilità sociale ed ambientale comincia anche da noi.

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