Non siamo reali. Consapevolezza del mezzo e distanze emotive

Il più delle volte, siamo vittime della nostra dabbenaggine e, soprattutto, dei meccanismi di causa ed effetto, dei quali abbiamo bisogno unicamente per colmare i nostri difetti di pensiero e sentimento. Siamo sciocchi e non siamo reali, non lo siamo nel momento in cui ricorriamo a un medium, Facebook, Twitter o qualsivoglia altro canale

Immagine distribuita da Flickr con licenza CCO

La parola cavallo non nitrisce; la foto del mare non ci bagna; il video d’un incidente non ci fa sentire alcun dolore: sono solamente simboli, indicatori di stati che non ci appartengono, come non ci appartiene la condizione di chi ha pubblicato qualcosa. Il dialogo e la comunicazione guadagnano sussistenza solo nel momento in cui un ricevente è perfettamente in grado di riconoscere l’intenzione del mittente. In assenza di reciprocità e consapevolezza del processo intenzionale, si producono solo fantasmagorie. La parola, di per sé, mantiene un’imperscrutabile complessità: può creare relazioni e, insieme, luoghi inesistenti ed equivoci dannosi. Ciò che sfugge al parlante comune è questo, che non c’è alcun legame giustificato tra il segno, che crediamo di scegliere liberamente, e il significato, comunemente inteso. Tra l’uno e l’altro, di qua dalla rassicurante convenzione, il dilemma.

L’unica insopprimibile competenza che ci resti e possa salvarci, rendendoci ‘reali’, consiste nel capire di non poter capire quale possa essere il significato di un’immagine, di un suono, di un segno. Purtroppo, il più delle volte, siamo vittime della nostra dabbenaggine e, soprattutto, dei meccanismi di causa ed effetto, dei quali abbiamo bisogno unicamente per colmare i nostri difetti di pensiero e sentimento. Siamo sciocchi e non siamo reali; non lo siamo nel momento in cui ricorriamo a un medium, Facebook, Twitter o qualsivoglia altro canale, in cui i nomi possono essere attinti unicamente dal campo degli alterativi: ogni esperienza è, così, inevitabilmente accresciuta, attenuata, peggiorata e così via. A questo punto, è appena il caso di correggere o modificare alcune affermazioni: non siamo reali, se, utilizzando il social network, pretendiamo di dare compimento, in uno scambio di battute, al fatto conoscitivo. Diversamente, cioè qualora ci tratteniamo dal dare per concluse le questioni, possiamo almeno alimentare la speranza di conoscere qualcosa.

“Ciao! Come va?” dice Tizio, incontrando Caio per strada. “Tutto bene!” risponde meccanicamente Caio, aggiungendo: “Sono anni che non ci vediamo”.

Il loro dialogo non è altro che un’approssimazione al nulla, un annientamento dei principi relazionali del discorso. Entrambi, deliberatamente e automaticamente, adottano in modo esasperante le massime della cooperazione linguistica, oltrepassandole e allontanandosene parecchio, tanto da finire nella dimensione dell’immobilità e della totale oscurità, dove ogni combinazione di fonemi ha un valore pari a quello di qualsiasi altra e non esiste documento linguistico che attesti le differenze. Irreale, in quest’ultimo caso, equivale a reale e viceversa, poiché nulla conta, fuorché la compresenza.

Lo scrivente, invece, qui ed ora, non ha alcunché di reale, pur tentando disperatamente di dare un contributo di efficacia all’esistenza digitale. Qualcuno leggerà il testo? E, se lo farà, si limiterà a dire “bello” o “brutto” oppure cercherà la via del dialogo con l’autore, alla scoperta di un autentico codice di comunione e per guadagnare l’unico senso possibile dell’incontro digitale? Nel capitolo 18 del Genesi, Abramo, supplice, chiede al Signore pietà per Sodoma, quand’anche ci siano solamente dieci giusti: “ – Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci -. Rispose: – Non la distruggerò per riguardo a quei dieci -.  Poi il Signore, come ebbe finito di parlare con Abramo, se ne andò e Abramo ritornò alla sua abitazione” (32-33). Sì, vale sempre la pena di non distruggere qualcosa. Bisognerebbe capire, tuttavia, quali siano le parole giuste, a scanso di equivoci, per così dire, ma, soprattutto, per evitare odiatori e imbonitori di ogni genere e specie, i quali farebbero precipitare, ancora una volta, sensi e significati nel brodo primordiale del nonsenso: non perché non abbiano il diritto d’esserci e odiare o ciarlare, ma perché verrebbero riprodotte senza requie le categorie dell’indistinzione o, da ultimo, dell’irrealtà. Rilke, nei Quaderni di Malte Laurids Brigge, ha scritto:

“Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita, meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si potrebbero scrivere dieci righe valide (…)”

Forse che lo scrivente possiede una soluzione? Nient’affatto. Dovrebbe prima trovare un accordo con sé stesso, con quel sé stesso che non vuole rinunciare al tentativo o, diversamente, alla tentazione di prendere parte al mercato comunicativo.

In realtà, una soluzione potrebbe esserci: il documento scientifico o artistico. Il fatto è che, in questo caso, il “ma” diventa un connettivo necessario e molto problematico. Il documento artistico, talora, non può neppure essere ‘discusso’, laddove quello scientifico, il più delle volte, non è accessibile a tutti. Dunque? Prima d’ogni ulteriore passo avanti, è bene chiarire che non si sta neppure minimamente facendo l’ipotesi d’un social network elitario, fatto di soli artisti e scienziati. Semmai, si sta provando a interrogarsi su ciò che potrebbe rigenerare l’incontro digitale, quell’opportunità di relazione che sembra ripetersi ‘ossessivamente’. Accessibilità e discutibilità, di fatto, non sarebbero gli unici impedimenti, qualora si volesse optare per il ‘linguaggio artistico o per quello scientifico’. Anzi, molto probabilmente, sarebbe un vero e proprio disastro: l’isolamento dei membri della comunità sociale potrebbe farsi asfissiante. La lingua, quale che ne sia la forma, non vive nella norma, non si compie nel primato d’una qualche intuizione geniale né si sviluppa nella trama d’una narrazione eccellente o nell’eleganza di un verso. Essa, al contrario, appartiene all’uso che se ne fa. Di conseguenza, per paradosso, se un vasto gruppo di parlanti cominciasse a parlare per onomatopee e queste fossero dotate di sensi e significati, tali da garantire l’aggregazione nel tempo, allora i linguisti dovrebbero tenere conto della lingua dell’aggregazione come accadimento e non potrebbero né dovrebbero fare alcun tentativo di purificazione. Così, ovverosia ricomponendo gli elementi raccolti finora, il non essere reali proprio dell’esperienza social-digitale dev’essere considerato, a buon diritto, come espressione della realtà della rete, le cui relazioni hanno la caratteristica precipua d’essere approssimative, sempre incomplete. Ciò che più conta, semmai, è la consapevolezza del mezzo e delle distanze emotive tra i parlanti che lo popolano. In altri termini, i “complimenti” fatti sotto la foto di qualcuno che annuncia ed esibisce un successo non rappresentano necessariamente la condivisione affettiva dell’evento; commentare gli articoli, in specie quelli di scottante attualità, com’è noto, non vuol dire averli letti; pubblicare le immagini dei gattini non significa essere d’animo nobile o tenero; e così via. Il più grave e pericoloso degli errori, in altre parole, è causato dall’univocità dell’interpretazione con cui siamo soliti accogliere il messaggio altrui o con cui pensiamo di far passare il nostro. Se soluzione può esserci, essa dev’essere cercata continuamente in una sorta di allegoria della manifestazione, in cui e per cui ogni tema può essere sé stesso e il proprio opposto.

In pratica, bisogna avere il coraggio di accettare, senza lasciarsi tentare dai giudizi di condanna o lasciarsi sovrastare dallo scandalo, che il linguaggio della rete si strutturi principalmente sullo snaturamento del principio di non-contraddizione, che ci riporta immediatamente alla Metafisica di Aristotele:

“È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”.

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