È ormai accertato che la parola “social” associata a network non significhi socializzazione perché il senso di solitudine che si prova in questi mezzi di comunicazione sociale è altissimo.
L’Università della Pennsylvania ha pubblicato sul Journal of Social and Clinical Psychology lo studio guidato dalla psicologa Melissa G. Hunt che ha messo in luce un legame tra la quantità di tempo speso con questi social media e l’aumento di depressione e solitudine.
«Alla fine, quello che è emerso – dice la dottoressa Hunt – è che usando meno del consueto i social si ha una significativa diminuzione della depressione e del senso di solitudine. E questo accade in modo più sensibile in quei ragazzi che erano più depressi quando sono stati arruolati nello studio».
Il continuo paragone con vite che si pensa essere “apparentemente” più interessanti delle nostre è ciò che determina il peggioramento del proprio stato d’animo.
Dello stesso parere è Marco Ferrari, professore di Filosofia al liceo Malpighi di Bologna, quando afferma che la solitudine degli adolescenti «è il tema del nostro tempo. […] I ragazzi di oggi non sono diversi dai ragazzi di ieri, sono affamati di vita vera, vogliono guardarsi negli occhi, esattamente come facevamo noi. Il senso di solitudine, poi, è connaturato all’essere umano. La differenza è che si sono rarefatti i luoghi di socializzazione, la piazza virtuale ha preso il posto della piazza fisica».
Vivere in una società fortemente competitiva non aiuta questo processo di disintossicazione dall’immagine costruita, artefatta, di una vita socialmente accettata come quella che compare sui social network, ciò che aiuta invece, è recuperare delle sane relazioni umane e ripensare un modello di socializzazione più sostenibile.
«La globalizzazione e le riforme ispirate dal neoliberismo – scrive Stefano Bartolini, docente di Economia Politica e di Economia della Felicità all’Università di Siena e autore del libro Ecologia della felicità. Perché vivere meglio aiuta il pianeta – hanno aumentato progressivamente la dose di competizione, diseguaglianza e precarietà nelle vite dei cittadini dei paesi industriali. Le relazioni e la felicità sono state le vittime della diffusione di ansia, aggressività e consumismo. La diseguaglianza economica si è avvicinata a livelli oltre i quali una comunità smette di essere una comunità. Può fingere di esserlo ma non lo è».
Puntare quindi a una politica di sviluppo dei beni comuni, ricostruire relazioni e agire collettivamente, puntare sulla fiducia dell’altro che diventa co-costruttore della nostra e della felicità altrui.
Come ricordo anche nel mio libro Sense of Community (edizioni Palinsesto, nuova edizione 2022) esempi virtuosi in tale direzione già esistono, bisogna solo far sentire di più la voce delle buone pratiche verso relazioni sempre più sostenibili, come nel caso di Santagostino Insieme, un nuovo servizio di compagnia che unisce la ricerca del primo impiego con il bisogno di assistenza degli over soli e fragili. L’obiettivo è quello di creare una community di giovani tra i diciannove e i trent’anni che sostengano anziani più fragili nelle attività quotidiane, come sbrigare commissioni per loro, accompagnarli a teatro, insegnando le necessarie competenze tecniche per navigare su internet.
Non apparire dunque, ma essere sostenibili nelle relazioni, mettendoci la presenza, il proprio tempo, le proprie idee ci rende più umani, ci fa essere più empatici e sicuramente meno soli.
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