Tutela dei beni archivistici e culturali: questione di copyright?

Nell’articolo Ponti, torri, vele e lo strano caso della libertà di panorama di Carlo Piana è stata approfondita (segnalandone i vari aspetti paradossali) la questione dell’assenza di un diritto di panorama. La sua analisi era principalmente basata sul diritto della cosiddetta proprietà intellettuale e su una sua ipertrofia dilagante. Ma a volte non è solo una questione di copyright (anche perché in questo specifico caso il copyright nella maggior parte dei casi è scaduto da molto tempo); a volte i vincoli affondano le loro radici in altre branche del diritto. È il caso dei vincoli alla riproduzione dei beni archivistici e culturali che appartengono al mondo del diritto amministrativo.

Si tratta di un diritto molto diverso rispetto al diritto della proprietà intellettuale. Il diritto amministrativo sottostà a logiche molto diverse: le fonti del diritto sono diverse, ad esempio hanno molta rilevanza i regolamenti; le logiche sono diverse e ciò che si tutela è il bene pubblico e non l’interesse di un soggetto privato; le dinamiche sono diverse ed è fondamentale avere contezza del ruolo e delle competenze dei vari enti pubblici che entrano in gioco; gli strumenti di enforcement sono diversi, dunque non abbiamo un soggetto che fa causa a un altro (in sede civile), ma piuttosto abbiamo una specifica autorità pubblica che commina una sanzione amministrativa (che tra l’altro è già “esecutiva” e può essere annullata solo dietro ricorso del cittadino).

Vediamo più nel dettaglio in quali termini si estrinsecano questi vincoli secondo la legge italiana.

Le norme italiane sulla riproduzione dei beni culturali

Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, cioè il D.Lgs. 42/2004 anche noto come Codice Urbani in nome del suo principale promotore, contiene alcune norme dedicate alla riproduzione dei beni culturali: si tratta degli articoli 107, 108 e 109. Queste norme si occupano sia delle riproduzioni che comportano un contatto fisico con il bene culturale (sostanzialmente i calchi di sculture e opere in rilievo, ma anche le scansioni), sia delle riproduzioni che non comportano contatto fisico (ad esempio la fotografia, o la riproduzione di file già precedentemente messi a disposizione). Secondo l’art. 107, le prime sono di regola vietate o consentite solo in via eccezionale e nel rispetto delle modalità stabilite con apposito decreto ministeriale; mentre le seconde sono tendenzialmente consentite, salvo il rispetto di alcuni limiti previsti dagli articoli successivi, da altri testi normativi, nonché – si noti bene – dai regolamenti adottati dalle varie amministrazioni e ovviamente dal diritto d’autore, qualora sussista (possono infatti esistere beni archivistici e culturali di cui il copyright non sia ancora scaduto).

L’articolo 108 si occupa invece di fissare i criteri per i canoni di concessione e per i corrispettivi connessi alle riproduzioni di beni archivistici e culturali, i quali sono determinati dall’autorità che ha in consegna i beni (comma 1) e vanno versati in via anticipata (comma 2). La parte della norma che risulta più centrale ai fini della nostra analisi è però rappresentata dai commi 3 e 3-bis; entrambi sono stati oggetto di due successivi interventi di riforma: il primo ad opera della L. 106/2014 e il secondo, recentissimo, ad opera della L. 124/2017 (entrata in vigore il 29 agosto 2017). È utile riportare integralmente e commentare brevemente il testo in vigore alla data di chiusura in redazione del presente articolo:

«3. Nessun canone è dovuto per le riproduzioni richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, purché attuate senza scopo di lucro. I richiedenti sono comunque tenuti al rimborso delle spese sostenute dall’amministrazione concedente.

3-bis. Sono in ogni caso libere le seguenti attività, svolte senza scopo di lucro, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale: 1) la riproduzione di beni culturali diversi dai beni archivistici sottoposti a restrizioni di consultabilità ai sensi del capo III del presente titolo, attuata nel rispetto delle disposizioni che tutelano il diritto di autore e con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né, all’interno degli istituti della cultura, l’uso di stativi o treppiedi; 2) la divulgazione con qualsiasi mezzo delle immagini di beni culturali, legittimamente acquisite, in modo da non poter essere ulteriormente riprodotte a scopo di lucro».

La storia di queste norme

Questi commi erano stati aggiunti nel 2014 per completare il dettato dell’articolo 108 e renderlo più adeguato al contesto contemporaneo, già profondamente cambiato rispetto agli anni di redazione del codice in versione originaria. Ciò nonostante molti avevano fatto presto notare che la loro concezione poteva essere più coraggiosa nella direzione della libertà di riproduzione e che la loro enunciazione poteva essere più chiara; e infatti negli ultimi anni si è creato un dibattito sia nella comunità scientifica sia nelle associazioni e gruppi informali degli utenti (si veda ad esempio la community “Fotografie libere per i Beni Culturali”) che ha contribuito all’approvazione dell’ultima recente modifica delle norme. Se questo passaggio sia sufficiente o necessiti di ulteriori aggiustamenti lo scopriremo solo con il tempo e con eventuali casi giurisprudenziali in cui verranno concretamente applicate queste norme.

Norme che creano incertezza

In generale, dalla lettura di queste norme si deduce che, nonostante sia fissato un generale principio di libera riproduzione dei beni culturali in pubblico dominio, nei fatti la riproduzione è tutt’altro che libera poiché comunque soggetta a una preventiva autorizzazione, nonché al preventivo versamento di un canone. A ciò si aggiunga un elemento di incertezza interpretativa non irrilevante: i limiti effettivi sono stabiliti da norme regolamentari adottate in autonomia da ciascuna pubblica amministrazione “custode” dei beni culturali (archivio, museo, biblioteca, soprintendenza, etc.), dunque ciò porta a non poter invocare dei principi omogenei a livello nazionale, ma a doversi di volta in volta rifare a queste norme di secondo livello, che spesso sono anche di difficile reperimento.

Con buona pace del principio di legalità e di certezza del diritto.

 

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