Gender Gap: quanto vale la differenza?

Parlare di Gender Gap in occasione dell’8 marzo è a dir poco scontato. Eppure, è un’occasione. Una delle tante che dovrebbero esserci per parlare di un “bug” che incide negativamente sulla vita di uomini e donne. Perché nonostante si pensi il contrario, questo non è un problema delle donne (etichettate come femministe nel momento in cui lo sollevano), ma di tutti.

Il perché è ben spiegato nel rapporto “Che genere di tecnologie? Ragazze e digitale tra opportunità e rischi“, presentato da Save The Children in occasione del Safer Internet Day. Scorrendo le pagine, nel momento in cui si parla di Ambienti Digitali e Genere e di intelligenza artificiale, si legge: “tra i rischi emergenti vi è quello insidioso che l’algoritmo, proprio perché creato dagli essere umani, possa attuare comportamenti discriminatori in modo simile a quello che ha appreso dai suoi stessi creatori. Le macchine quando imparano un linguaggio ereditano infatti gli stereotipi e pregiudizi di cui il linguaggio è intriso“. E questo lo aveva ben spiegato anche Giulia Baccarin.

Il rischio, in sintesi, è quello di costruire una società in cui macchine che prendono decisioni autonome solo apparentemente obiettive possano limitare le opportunità di una fetta rappresentativa della popolazione, casualmente quella femminile. Il problema non è nella esclusione delle donne, ma nella esclusione. Sarebbe stato lo stesso grave problema se la parte esclusa fosse stata quella maschile, inutile sottolinearlo.

Problema reale o apparente?

Problema reale. A prescindere, infatti, dalla percezione personale di ciascuna o ciascuno, i dati parlano. Ne riportiamo solo alcuni a titolo esemplificativo:

  • in Ue (e anche in Italia), secondo il rapporto Istat “La trasmissione della conoscenza“, i laureati in discipline STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) sono soltanto il 22%. Ma raggiungono il 34,5% tra i maschi mentre si fermano al 13,5% tra le femmine
  • il divario di genere inizia dalla scelta della scuola secondaria superiore, secondo Ocse, dove sul totale degli iscritti al 1° anno la percentuale femminile negli istituti tecnici-tecnologici è pari solo al 16,3%
  • il Global Gender Gap Index 2017 del World Economic Forum mette l’Italia all’82° posto su 144 Paesi per livello di diseguaglianza di genere in settori come lavoro, politica, salute e istruzione
  • il Digital Gender Gap, secondo il Facts and Figures ITU 2017, a livello mondiale continua ad aumentare, passando dall’11% del 2013 all’attuale 11,6%
  • le donne che hanno accesso alla tecnologia nel mondo sono 250 milioni in meno degli uomini e rappresentano la percentuale più bassa della forza lavoro secondo il rapporto Brooking Institution

Potremmo andare avanti nel citare studi, analisi e nel mostrare dati ancora a lungo. Ci fermiamo qui per non far appassire la più resistente delle mimose.

Le donne non sono portate per le STEM?

Se ci sono poche laureate non sarà perché qualche problema con i numeri  (e anche con la tecnologia) le donne ce l’hanno? E qui è venuta in soccorso Istat e lo stesso rapporto di Save The Children che affermano come le ragazze siano generalmente più competenti digitalmente dei loro colleghi maschi. Nella fascia 16-24 anni le “piccole donne” mostrano competenze digitali base (40,5%) e alte (39,6%) in misura maggiore dei coetanei uomini (37% e 36,3%). In particolare sono più brave nell’information skill (65,4% a fronte di 61,6% dei ragazzi); comunication skill (86,6% a 79%); problem solving (61,4% contro 56,6%) e software skill for content manipulation (65,2% a 61,7%).

A parità quindi di “potenzialità” e competenze, però, le donne scelgono percorsi di studi lontani da informatica e ingegneria per esempio e professioni non legate al mondo ICT. E tutto sembra perché si rendano conto (semplicemente guardandosi intorno?) che non hanno molte chance dal punto di vista della carriera. “Le scelte professionali e formative – si legge nel rapporto Save The Children – sono ancora influenzate da stereotipi di genere“. Peccato, perché riconoscerli e abbatterli non è operazione semplice. Peccato perché i leader del G20, a luglio 2017, hanno approvato una specifica iniziativa denominata #eskill4girls, sostenendo la priorità di lavorare per rimuovere gli ostacoli per bambine e ragazze di accesso alle TIC. Perché, a detta dei “grandi”, “la digitalizzazione e l’accesso alle TIC fungono da potenti catalizzatori per l’inclusione e l’empowerment economico e sociale di donne e ragazze“. Nella frase manca forse un riferimento ai ragazzi, visto che continuare a pensare alle donne come a panda da salvare non aiuterà nessuno.

Le donne non sono interessate a innovazione e tecnologia?

Se le donne non si iscrivono a ingegneria e informatica, sarà perché non sono così interessate. Lo stesso dicasi per lavori nel settore ICT. Poche donne significa poche candidate per “nuove professioni”. Poche donne giustifica “soli uomini” in tavoli tecnici (anche dove si progettano cose che impatteranno su tutti, vedi a questo riguardo il Team per la trasformazione digitale del Paese scelto dal commissario Diego Piacentini con sole 5 donne con ruolo tecnico su 35 componenti). Poche donne significa convegni di settore con sole giacca e cravatta. Non sono interessate all’innovazione, alla tecnologia, all’informatica, che ci possiamo fare? Non si propongono per fare talk a tema, che ci possiamo fare? Non vogliono sedere in posti di potere in cui si decide come trasformare un processo impattando, quindi, profondamente sul modo di usare una cosa e sullo stesso modo di vivere. Non sono interessate. Discorso comodo, un po’ come quando si dice “non lavorano perché non vogliono lavorare”. Un discorso da bar nemmeno tanto 2.0, uno di quelli che ti fa scordare l’opportunità di cogliere il valore del confronto e della diversità nelle discussioni, nella progettazione, nel lavoro in generale.

 

 

 

 

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