Cinque domande (e una sesta senza risposta a @MatteoRenzi) su #IceBucketChallenge

#IceBucketChallenge. La storia e le regole del gioco sono ormai note: o si fa una donazione ad una associazione oppure si riceve (o ci si auto-infligge) una secchiata d’acqua gelata sulla testa. Ed è ormai noto che #IceBucketChallenge, come racconta molto bene Fabio Chiusi su Wired rappresenta un successo planetario. E come per tutti i successi planetari non mancano il partito dei pro e quello dei contro.
  • Il primo si fa forte degli indubitabili risultati (quasi 50 milioni di dollari di raccolta in pochi giorni).
  • Il secondo sostiene che nella dinamica che si è sviluppata l’oggetto della beneficenza sia stato surclassato dalla voglia di VIP e pseudoVIP di apparire (e la presenza del nostro Presidente del Consiglio, che di comunicazione ne capisce forse più dei suoi consulenti, è un buon indizio in tal senso).
Ma se è vero che il fine giustifica i mezzi la questione è secondaria e forse irrilevante, almeno dal punto di vista dell’ALS, che altrimenti 50 milioni di dollari – ai suoi ritmi – li avrebbe ricevuti in quasi vent’anni.
Le domande importanti sono invece probabilmente altre:
  1. Il successo di #IceBucketChallenge era prevedibile? I risultati di una campagna virale non sono mai prevedibili. Costruire la viralità di un messaggio a tavolino sarebbe più o meno come avere la formula della pietra filosofale. Checché ne dicano esperti e pseudo-guru la storia (delle campagne virali) la scrive chi la vince. Tutti quelli che si vantano dei propri successi lo fanno solo dopo averli ottenuti, e passano notti insonni cercando di spiegarne le motivazioni che invece, per buona parte, sono aleatorie. Si può favorire il processo, ma non se ne possono prevedere a tavolino i risultati. Non a caso coloro i quali millantano la loro capacità di costruire campagne virali “garantite” passano il loro tempo a tenere corsi e seminari su come farlo, piuttosto che non a produrne realmente (o si danno alla politica).
  2. Il modello di #IceBucketChallege è replicabile? Ancora una volta: come tutte le campagne virali l’iniziativa non è replicabile. La ALS potrebbe tentare la strada della campagna annuale, ma senza alcuna garanzia di successo. L’anno prossimo potrebbe provare con secchi pieni di farina, o con bagni nella pece, ma nessuno potrebbe garantire a priori di replicare quello che è successo quest’anno. Neanche con la partecipazione straordinaria di Matteo Renzi (che però, immerso nella pece, farebbe una gran figura).
  3. I risultati di una iniziativa come #IceBucketChallenge sono quantificabili a priori? Risposta, ovviamente, negativa. Nessuno può prevedere quale sarà il risultato di una campagna virale come #IceBucketChallenge. Nè in termini economici (ossia il rapporto tra secchiate d’acqua e donazioni) né in termini di visibilità (ossia la brand awareness derivante dall’aver ideato l’iniziativa che, nel mondo del no-profit come in qualsiasi altro, incide concretamente sul bilancio dell’operazione).
  4. La visibilità acquisita da ALS con #IceBucketChallenge è capitalizzabile? Quanti di quelli che stanno leggendo questo articolo (e non si occupano di marketing on-line) sapevano che il nome dell’Associazione promotrice dell’iniziativa fosse ALS? Già questo dovrebbe dirla lunga sulla efficacia reale dell’azione in termini di brand awareness. Quanti lo ricorderanno tra un anno? Nell’era dell’istantaneità dei messaggi, la continuità dello stimolo è fondamentale. In questo senso chi organizza campagne come #IceBucketChallenge non può contare troppo sulla capacità di “capitalizzare” la visibilità acquisita con una singola, per quanto fortunata, operazione di successo.
  5. #IceBucketChallenge rivoluzionerà  il mondo del fundraising per la beneficenza? Una rondine non fa primavera. Ed un secchio d’acqua gelata sulla testa del Presidente del Consiglio – benché piacevole da vedere – non rivoluziona il mondo del fundraising per il no-profit (al più, può schiarire le idee a Matteo Renzi).  Che #IceBucketChallenge sia un passaggio importante è indubbio. Ma è indubbiamente sbagliato pensare che sia un cambiamento disruptive. Che le logiche del marketing virale entrino nel mondo del no-profit è certamente positivo. Ma tali logiche – ad oggi – possono integrare, non sostituire le dinamiche tradizionali. #IceBucketCHallenge ha raccolto più o meno – su scala globale – quanto raccoglie un’iniziativa come Telethon su scala nazionale.
Con la differenza che Telethon è prevedibile in termini di risultati, replicabile in termini di modello, quantificabile in termini di raccolta e capitalizzabile in termini di brand awareness. In altre parole: su una iniziativa come Telethon (con tutti i suoi difetti) possono sopravvivere e pianificare strategie operative decine di associazioni ed enti di ricerca. Si può dire lo stesso per modelli basati su strategie come quella di #IceBucketChallenge, che ha stupito per primi gli stessi organizzatori?
La strada dell’integrazione è sempre difficile, ed è indubbio che #IceBucketChallenge ci insegna che anche il mondo del no-profit può e deve accogliere la sfida della rete per provare nuove strade. Ma mai come in questo caso non bisogna incorrere nell’errore di pensare a priori che “nuovo è meglio” e che i nuovi modelli possano sostituire radicalmente quelli vecchi. Possono cambiarli. Devono cambiarli. Devono migliorarli. Le iniziative come #IceBucketChallenge, nel mondo del no-profit più che in altri contesti, possono rappresentare un elemento delle strategie di marketing e promozione, ma non devono essere il pilastro portante. Non devono esserlo perché in un contesto che vive (o sopravvive) di sovvenzioni spesso non ci si può permettere di sbagliare nemmeno una campagna. Il coefficiente di rischio di una iniziativa come #IceBucketChallenge in alternativa ai modelli consolidati è troppo alto. Può rappresentare la ciliegina sulla torta, ma non può essere la portata principale, che deve essere basata su modelli che – magari con un minor livello di redditività – presentino anche un minor livello di aleatorietà. Un po’ come gli investimenti finanziari: alto il rischio alto il guadagno. Ma alta anche la possibilità di perdere i propri soldi.
Il rischio concreto ora è quindi che i prossimi a guadagnare nel tentativo di replicare il successo di #IceBucketChallenge non siano le organizzazioni no-profit, ma i consulenti che le assalteranno promettendo facili guadagni con poco impegno, con la scusa che “virale è bello”.
È già successo con il mondo aziendale in passato. Sarebbe un peccato se il mondo del no-profit non imparasse la lezione dall’esperienza vissuta in un altro contesto.
Ci sarebbe una sesta domanda alla quale rispondere: perché il nostro Presidente del Consiglio invece di donare 100 dollari o – meglio – sviluppare un serio programma di supporto alla ricerca scientifica nel nostro Paese, sceglie di farsi una doccia fredda? 

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