Non è passato inosservato nelle stanze dei bottoni del mondo dei media il grande successo di programmi televisivi di prima serata definiti “anomali” come “Vieni via con me” e “Quello che (non) ho”.
Del resto, il fatto che si possa confezionare un contenuto televisivo di successo anche solo riprendendo su un palco una persona che ha qualcosa di interessante da dire, senza necessariamente litigare ad alto volume con qualcun altro, è un principio che sembra aver colto impreparati i teorici del “ritmo televisivo”. Come se esistesse ancora – nell’epoca di Youtube – qualcosa come il “ritmo televisivo”, quello che da solo dovrebbe impedirti di “cambiare canale” (sì, perché questi teorici, che esistono ancora, parlano ancora di “cambiare canale” come della peggior cosa che possa accadere nel salotto di un italiano).
Ebbene, se si esce dall’ambito della televisione di flusso, e ci caliamo nella prospettiva della Web TV, il fenomeno Fazio/Saviano si rivela come la vera e propria punta di un iceberg. E’ infatti importante che si sia scoperto che è possibile trascinare sulla TV tradizionale un grande pubblico con un format ritenuto finora “irrituale” da chi decideva i palinsesti (e cioè il responsabile marketing della Findus, che notoriamente non deve essere un grande esperto di televisione), addirittura con numeri che rendono economicamente sostenibile questa scelta persino per le pesantissime catene distributive tradizionali. Ma proviamo a immaginare, a questo punto, come sia facile rendere economicamente giustificabile, con investimenti e aspettative nettamente inferiori, un format simile (gente che parla da un palco ripresa da telecamere) su catene molto più leggere. Come appunto la Web TV, dove i costi di distribuzione non sono nemmeno comparabili con quelli di chi deve costruire tralicci e affittare satelliti, mentre è molto più facile “andarsi a cercare il pubblico” interessato alle tematiche del caso.
Quando parlo di “sostenibilità”, peraltro, è opportuna una precisazione. Non s’intende sostenibile solo ciò che viene prodotto e distribuito con l’obiettivo di ottenere ricavi (pubblicitari?) in grado di superare i pur esigui costi, all’interno di un ciclo puramente editoriale. Parlo anche della sostenibilità di una “strategia del contenuto” che sia per esempio a supporto di una più ampia operazione di marketing. Difficile – a questo proposito – non pensare all’operazione “La Repubblica delle Idee”: una settimana di dibattiti che – oltre a riempire le piazze di “Bologna la dotta” – hanno permesso a un grande gruppo editoriale di creare contenuti a partire (appunto) dal semplice confronto di idee, generando materiale che ha poi “risuonato” anche lontano dal web. Ne hanno parlato i giornali, e si sono agganciate le dirette TV non solo di Repubblica TV (sul digitale terrestre) ma anche di Sky TG 24, che ha un pubblico molto più ampio. Per una settimana il luogo del confronto e del dibattito si è spostato proprio lì, per poi rimbalzare lontano, anche su (altri) giornali e (altre) televisioni.
Mi spingo fino a dire che sì, la moltiplicazione e il successo “fisico” delle occasioni di confronto pubblico, vale a dire le piazze piene, è legata sicuramente a una crescente voglia delle persone di comprendere le grandi questioni del periodo critico che sta attraversando la nostra economia e la nostra società. Ma si può anche spiegare con la crescente possibilità di trasformare questi momenti in occasioni per creare contenuti di pregio, in questo caso “Corporate Generated”, e spesso con un ciclo di vita lungo, che la diffusione via Web giustifica, e che prima le sole radio e TV non potevano giustificare.
Riducendo ancora la scala, del resto, troviamo conferme di questo trend nella crescente disponibilità dei vari eventi e festival estivi a rendere fruibili questi incontri anche online, in diretta e in differita.
Insomma, se sfuggiamo per una volta dall’equivoco di chi “misura” queste iniziative col metro della raccolta pubblicitaria (“Peanuts” è spesso una delle poche parole in inglese che conoscono) l’invito è a provare a comprendere le logiche più ampie in cui si muovono iniziative mediatiche di questo tipo: stimolare la partecipazione, occupare il centro del confronto, essere il punto di riferimento della conversazione. Generalista, se si ha alle spalle un grande quotidiano, o magari anche una grande casa editrice. Di nicchia, se si è leader di una industry verticale. Per intenderci, non sarei sorpreso di vedere, un giorno, la Boiron organizzare e trasmettere via web i dibattiti pubblici della “Settimana dell’Omeopatia”, per allargare la discussione su un tema indubbiamente controverso al di fuori del circolo degli addetti ai lavori, e coinvolgendo gli stessi consumatori.
In definitiva, la discesa in campo di soggetti non necessariamente editoriali potrebbe aprire definitivamente la strada del Post-Talk. Da quando esiste il web infatti, ogni interesse verticale, ampio o ristretto che sia, è un potenziale aggregatore di pubblico e un nodo di conversazione. Chiunque sia uno stakeholder (aziende, associazioni, enti pubblici, ecc.) deve almeno porsi il problema di essere presente ed avere e voce in capitolo nel luogo in cui questa conversazione si svilupperà con maggior efficacia. E il modo migliore per avere un posto in prima fila è ovviamente prendere l’iniziativa, creare un “luogo fisico attraente ed agevole” per la discussione e raggiungere/coinvolgere i propri pubblici attraverso il Web, di cui la Web-TV è solo una delle opportunità più appariscenti, ma che sarà sempre più data per scontata. Nel senso che molto presto la domanda “ma come, non c’è lo streaming?”, oggi confinata al circolo dei barcamp tecnologici e dei geek impenitenti, potrebbe diventare un tormentone generale, e quindi denso di opportunità per chi saprà raccoglierlo per primo.
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