TechAbilità come via di pro-attività

Cos’è la realtà mediata? E perché ci interroga così tanto? Per quale motivo ci sentiamo esclusi se non riusciamo ad accedere a quella porzione di vita che transita nel digitale che la rappresenta, la racconta, la performa e ce la restituisce in modalità interattiva, multicanale, always on offrendocela, dunque, mediata e in qualche modo aumentata? Molto di ognuno di noi ha forma di bit; quando Nicholas Negroponte nel 1995 scriveva “Being Digital” esprimeva davvero una profezia: le nostre identità agiscono in digitale con effetti sul reale in modo bidirezionale e richiedendoci skills, prontezza, competenza, una sorta di muscolare presenza capace di inseguire l’evoluzione che le smart ideas realizzano grazie alla smart technologies. Nel 2013 poi, e in particolare in questo autunno, si rincorrono notizie di importanti acquisizioni di aziende specializzate nel riconoscimento e nel controllo gestuale da parte, fra gli altri, di Google, Apple, Microsoft che forse puntano a colonizzare una delle frontiere più affascinanti dell’interazione uomo-macchina, quella del corpo da usare come mouse.

fm_machine_eri_2In una rubrica che si occupa di ICT&disabilità è legittimo allora porre una domanda: questo ennesimo passaggio tecnologico – aperto dalle sperimentazioni militari e aerospaziali, transitato dalla realtà virtuale e poi nelle console e nel gaming ma anche nella domotica – sprigiona nuove promesse per le persone con disabilità? La risposta è un provocatorio no. Ma non perché il controllo gestuale non sarebbe per loro utile, ma poiché non si tratta di una nuova promessa nell’ambito dell’ICT inclusivo. Piuttosto potrebbe trattarsi di un ampliamento ulteriore, utile anche ad abbassare i costi di certa tecnologia che per il mondo della disabilità è già un “vecchio futuro”: usare il corpo ed ogni gesto residuo come emulatore di mouse è infatti un’opportunità conosciuta oltre che praticata da numerose persone con disabilità. Un innovativo esempio, tutto italiano, è “FaceMOUSE”, progetto dell’Ingegner Simone Soria che traduce ogni punto del corpo in un potenziale clic. (www.aidalabs.com)

Poter avvalersi dei gesti per dare comandi ad una periferica è fondamentale soprattutto quando è impossibile usare mouse e tastiera standard e valutare periferiche di input tra le assistive technologies (AT) diventa strategico. Attraverso il movimento residuo della testa, del battito delle palpebre, del viso, di un piede, di poche dita o di un solo dito della mano, tramite il puntamento oculare, i comandi vocali o attraverso tutto il corpo: occorre che il “clic” sia compiuto da un gesto volontariamente attivabile e controllabile nell’ampiezza, nella direzione, nella forza. “Un gesto” che dischiude per alcuni l’intera possibilità di comunicare e condividere vita, lavoro, amicizie e le cui potenzialità vanno accuratamente valutate dalle équipe multidisciplinari di un’ausilioteca in cui si avvia un processo di valutazione condiviso con l’utente: si tratta di luoghi nei quali poter provare gli ausili informatici e di comunicazione per giungere ad individuare l’ausilio più efficace dentro un più ampio progetto di autonomia; uno strumento che possa consentire sia di interfacciarsi con un pc, un tablet, uno smartphone (per interagire con tutti i contenuti multimediali e plurisensoriali che mediano), sia di diventare essi stessi medium di comunicazione (per farsi un’idea: www.ausiliotecaroma.it e www.ausilioteca.org/).

E dunque, il futuro individuato dal paradigma “gesture recognition” è passato dalla progettazione accessibile. D’altronde anche il touch screen era “solo” una tecnologia assistiva, fino a quando negli smart devices è stato inserito come discontinuità progettuale.

Essere “smart” allora non è tanto una proprietà dell’ICT di ultima generazione: è piuttosto una modalità dell’intelligenza, connettiva o collettiva (richiamando Derrick De Kerckhove e Pierre Lévy) che sappia mettere a buon frutto i vantaggi di essere tutti parte di un unicum in cui è importante che le conquiste siano messe a sistema, che diventino valore solidale, sostenibile, lungimirante; questa deve diventare una modalità dei sistemi organizzativi complessi: sociali, economici, produttivi. Ecco perché si pone una questione di diritti di accesso e ci si sente lesi se si è – senza chiavi – dall’altra parte di una porta digitale.

Evidente che la questione interfaccia i diritti di cittadinanza intersecando quelli di ogni individuo a prender parte ai processi che lo circondano, mediati o meno che siano. Nei documenti ufficiali e nelle normative le persone disabili vengono definite una “categoria sociale debole” ma vale la pena scandagliare questa “fragilità” che, a ben vedere, è indotta da un contesto e un sistema che non è pronto ad accogliere la disabilità, non riuscendo a consentire ad ogni individuo la “presa di parola” sulle proprie autonomie e con i propri mezzi. A guardarla così è allora l’organizzazione sociale ad essere debole autoreplicandosi in un sistema di cose, risposte, soluzioni che anche nei luoghi di lavoro rinvia il passaggio da una visione sociale ad una professionale. Si ritiene che la dimensione lavorativa per le persone con disabilità sia esaudita – ed esaurita! – dalle liste ad hoc del “collocamento mirato” che però faticano a consentire ad ogni lavoratore di realizzare le proprie potenzialità in pieno, determinando meno efficacia in termini di produttività e in definitiva meno vantaggio per l’azienda.

images (1)Guardiamo ai luoghi di lavoro, in particolare nel terziario dove le persone disabili trovano maggiori opportunità di impiego: le postazioni sono spesso desk tecnologici, anche connessi ad una broadband che implementa sempre più chatting, cloud, video-audioconference; già queste tecnologie a basso costo sono ad esempio strategiche per le persone sorde e per le persone cieche o ipovedenti poiché si può differenziare il linguaggio di accesso, visivo o uditivo, a seconda del proprio canale di comunicazione agendo con un profilo utente altamente personalizzabile. Finché le tecnologie (pc, mouse, tastiera, webcam..) sono “standard” giungono al singolo lavoratore; quando per accedere a quegli stessi servizi e contenuti occorre una tecnologia assistiva, allora il processo diviene immediatamente eccezionale, costoso, una spesa che l’ordinaria amministrazione – si sente spesso dire – non può sostenere. O forse sarebbe meglio dire “l’ordinaria organizzazione”? Già perché si tratta di un’idea di lavoratore semplicemente non prevista. Ecco riemergere la questione “ordinario  vs extra-ordinario” cui la società condanna le categorie che chiama deboli, quasi fosse in loro l’incapacità o la mancata volontà a partecipare e non la risultante di un’organizzazione delle cose che è il vero vulnus L’accesso alla conoscenza e al lavoro, anche tramite le assistive technologies, è però una questione di diritti. Nulla di più. Un’autentica questione democratica. Dunque ordinaria e doverosamente perseguibile. Ad oggi le persone con disabilità si trovano nel guado di un processo tecnologico che sperimenta con loro le innovazioni più avanzate già presenti nei prodotti commercializzati dalle aziende di AT che offrono vari sistemi di controllo gestuale, puntamento oculare, comando vocale. Al tempo stesso, la fruizione di tali opportunità è talvolta ostacolata dai costi, nonostante la normativa preveda un finanziamento pubblico per gli ausili riconosciuti come strumenti per l’autonomia dal Sistema Sanitario Nazionale. Altre volte queste periferiche restano dentro casa dove le famiglie giungono anche a sostenere le spese direttamente, ma i vasi non sono comunicanti e i luoghi della formazione e del lavoro restano di molto arretrati.

Occorre un’implementazione di volontà anche normativa che porti ad una revisione, invocata da più parti, della Legge n. 68/99 sul collocamento mirato (“Norme per il diritto al lavoro dei disabili“) che prevede “quote di riserva” obbligatorie ma troppo di frequente colloca al lavoro secondo il livello di deficit e non secondo abilità, potenzialità, titolo di studio e competenze che sono invece i requisiti sempre cercati in ogni selezione. Occorre che le tecnologie assistive diventino strumenti da poter utilizzare nei luoghi di lavoro così da poter ripensare processi e mansioni eseguibili, ma non attraverso iniziative sperimentali, pilota, buone prassi, ma attraverso l’ordinaria amministrazione organizzativa. Serve uno sforzo di progettualità condivisa in cui l’ICT – senza cadere nell’utopia tecnologica – può emergere come un’estensione di possibilità, una via per poter esprimere anche le proprie “techability”, considerando le potenzialità e le abilità di ognuno come punto di innesto di una visione scardinante e reale che va dalla disabilità alla proattività.

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