Internet of Everything alla prova della disabilità: il futuro è passato qui?

C’è un mondo in cui il futuro rischia di arretrare per paura di non sapere volare. E’ il mondo del multiaccesso e dell’ICT inclusivo, quelle che dalla fine degli anni ’90 ha fatto compiere alle persone con disabilità passi da gigante in termini di autonomia e performance professionali grazie ad assetti tecnologici che sempre di più hanno consentito di progettare in modo che le diverse abilità potessero trovare il proprio spazio di espressione, realizzazione, interazione digitale. Ora tutto questo è ancora in movimento ma rischia di restare un insieme di paradigmi e di possibilità dalle quali il futuro è passato e… si è fermato. Perché osare ancora può sembrare un sogno. Perché c’è poco investimento economico in ricerca in questo senso. Perché c’è un mercato che ancora non intravede negli 80 milioni di cittadini con disabilità in Europa e nei circa 5 milioni in Italia un target interessato e potenzialmente utente per quello che la tecnologia digitale delle reti va disegnando: l’Internet of Everything.

Google car

Eppure, anni fa qualcuno ha osato sognare, fino a toccare limiti cyborg: qualcuno ricorderà lo statunitense su sedia a ruote che si fece impiantare dei microchip sottopelle per poter interagire con la propria casa che si affacciava ad un primissimo allestimento domotico: con un battito di mani o avvicinandosi a dei sensori, le luci si accendevano, le finestre si aprivano, le porte lasciavano passare. Sembrava che il senso del limite corporeo rappresentato dalla disabilità stesse smaterializzandosi dentro una corporeità digitale che si rendeva complementare e dialogante con la tecnologia ambientale. Ora l’ambiente è attraversato  dalla Rete e Internet è in tutte le cose, una sorta di immanenza che ci farà camminare costantemente accanto – e dentro – le nostre nuvole: una fatta dei nostri profili personali, relazionali, con il nostro social network che traccia le interazioni con le persone, gli eventi, le iniziative, il nostro profilo culturale e di consumatori; e l’altra (per ora ne intravediamo almeno due ma chissà!) che racchiude l’object network, abitata dai nostri oggetti quotidiani e dalle azioni che intratteniamo con loro e che pescano dalla prima che, a sua volta, dialoga con la seconda. …Una sorta di “fiera dell’est” in rete in cui ogni elemento chiama in causa l’altro.

Ma proviamo a fare qualche esercizio di fantasia. Cosa c’è oggi che parla di domani? Nel 2012 Google Car si è presentata ponendo alla guida una persona con un residuo visivo del 10% e i video della macchina autoguidante hanno fatto il giro del mondo: un’automobile veicolata dalle reti GPS, dai sensori di prossimità, da una capacità di orientamento e aggiustamento delle traiettorie guidata appunto dai dati contenuti nella rete cui è interconnessa. Per quante persone ipovedenti anche gravi questa soluzione potrebbe realisticamente presentare un vantaggio? Si tratterebbe di un’autonomia finora mai conquistata, visto che i loro spostamenti – a maggior ragione quelli di una persona cieca – sono sempre vincolati ad un accompagnatore che è sempre più difficile scovare ed avere in modo continuativo e professionale. Per una persona con deficit visivo, la Google Car, o un veicolo basato e perfezionato sulle stesse potenzialità, potrebbe stare nella stessa cloud del bastone bianco, compagno ineludibile e “apripista” di chi, pur con una ridotta o inesistente capacità visiva, vuole tentare un po’ di autonomia: quel bastone è la prima cosa a sparire quando la si appoggia, sempre col rischio che cada o che qualcuno lo sposti o vi inciampi; potrebbe anche il bastone essere connesso ad uno smartphone e segnalare la propria ubicazione al suo proprietario? E una volta fatto questo, perché non pensare ad un passo ulteriore: localizzare il bastone e renderlo capace di restituire segnali di orientamento, così come ogni mappa digitale accessibile in mobilità fa indicando la strada a chi la consulta.

cecitàIn questo caso, “antenato” di una tale soluzione, che sarebbe ancora da ipotizzare, è stato il percorso contenente sottotraccia dei tag RFID capaci di interagire col bastone di una persona cieca (adeguatamente predisposto con un ricettore RFID), che così poteva in totale autonomia  spostarsi lungo quel percorso. Il progetto era di IBM Italia, sviluppato con il Cattid della Sapienza di Roma, e si chiamava “Sesamonet” – SEcure and SAfe MObility NETwork. Era “solo” il 2009. Ma quel prototipo, pur commercializzabile, realmente utile e anche installato in alcuni spazi museali italiani, non è esploso poiché la tecnologia dei tag prevedeva dei costi di messa in posa ancora troppo alti a fronte di una tecnologia delicata che richiedeva la disponibilità ad investirci anche dotandosi di bastoni bianchi ad hoc da ospitare nei luoghi. La tecnologia connessa in rete è talmente pervasiva da farsi wearable. E’ un vantaggio per le persone con disabilità? La letteratura internazionale ha iniziato a intrattenersi con queste tematiche.taggati RFID. Ma ora la Rete è già “posata” e costantemente viaggiamo fra le nuvole e dunque gli smartphone potrebbero iniziare a dotarsi di un’accessibilità non solo ai contenuti che normalmente mediano, ma anche diventare essi stessi veicoli di accesso verso altri oggetti. Lo “smartwatch” ne è un esempio ma anche i “Google glass” che stanno cambiando la prospettiva dello sguardo attraendola verso una sorta di “porta dimensionale” esposta sulla soglia dell’ubiquità.

L’Internet of Everything rivoluziona la sensorialità perché la rende compartecipe dell’ambiente e non solo via di accesso. Interagire con la propria casa, poter ricevere sul proprio smartphone o sul proprio smartwatch l’informazione – per alcuni scontata – delle luci o del gas acceso o spento èper una persona cieca, per fare un solo esempio, un vantaggio quotidiano. Per una persona sorda i Google glass che recepiscono ogni informazione d’ambiente arricchita di dati e geolocalizzata possono rappresentare un inaspettato potenziamento del canale visivo, loro linguaggio principale di accesso alla realtà che in questo modo non è solo aumentata, ma è “abitata” e partecipata con i propri dati e la propria personale interazione.

Pensando ad una persona con disabilità motoria di diverso tipo, qualora usufruisse di una sedia a ruote potrebbe l’Internet of everything includere quel suo veicolo facendolo diventare uno degli oggetti con i quali essere connessi o una sorta di “consolle” di input-output relativa all’ambiente domestico, agli strumenti tecnologici da avviare e usare, agli elettrodomestici, alla mobilità avviabile con rapidità e autonomia, “handheld”. Nella mobilità accessibile la connessione in rete che rende accessibili le informazioni è fondamentale, specie se quelle info sono aggiornabili e interrogabili in modo profilato, personale, in autonomia. Così accade per “ACT!” (Accessibility City Tag) di IBM che fu il primo progetto pilota fra l’altro prototipato proprio in Italia nel 2009/2010 e che sempre prendendo a laboratorio la città di Nettuno dove è nato continua ad evolversi; ma anche “EasyWay” di Vodafone Italia che si arricchisce della dimensione social con una piattaforma collaborativa fra gli utenti. C’è poi spazio anche per app “artigianali” che sfruttano la rete per fornire informazioni a portata di mano, di occhio, di orecchio…

eHealthE nell’ambito della cosiddetta “eHealth” le applicazioni si aprono allo spazio della cura a distanza e della vita indipendente consentendo un dialogo costante anche dei parametri vitali con smarthpone e quant’altro un “presidio medico” in casa potrebbe prevedere.

Internet dentro e nelle cose le rende interrogabili, attivabili, controllabili e gestibili a distanza. Di certo il paradigma può sprigionare promosse ma occorre che la progettazione nel campo delle tecnologie abilitanti, di quelle assistive e degli ausili informatici e di comunicazione si riscopra capace di tornare a pensare un futuro che già una volta è passato anche dalle strade della disabilità: come è stato per la sintesi vocale, il voice over, il touch, la domotica. Come è stato per la “brain computer interaction” che già da anni vede proprio negli utenti con severa disabilità motoria gli sperimentatori più predisposti a testarne le possibilità futuristiche.

E ritrovata la voglia di crederci, la testardaggine di investirci, occorre che la progettazione conquisti il mercato e i suoi potenziali clienti con un internet – accessible – for everything.

C’è un detto da sempre rivolto a un sognatore: “Cammini con la testa fra le nuvole”… ora è più che mai vero.

Facebook Comments

Previous articleCon la cultura non si mangia. Se la fai male.
Next articleQuintarelli: “Governance dell’innovazione? Che sia un ruolo trasversale”
Giornalista pubblicista e Dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione con un progetto sulla “Cultura accessibile”, dal 2011 al 2013 è stata assegnista di ricerca nel Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale (CoRiS) della Sapienza Università di Roma per un progetto sulla e-Inclusion nel lavoro delle persone con disabilità finanziato dall’Istituto Superiore di Comunicazione e Tecnologie dell’Infromazione (Iscom) del MISE. Da oltre un decennio svolge ricerca sulle opportunità offerte dall’ICT nel promuovere e realizzare l’inclusione e la partecipazione delle persone con disabilità. Ha lavorato nella Fondazione ASPHI Onlus di Bologna occupandosi di integrazione dei disabili tramite assistive technologies. Nel 2013 ha promosso la seconda edizione del seminario “Inclusione digitale. Promotori di accessibilità” realizzato nel Dipartimento CoRiS insieme con IBM Italia. E’ Docente a contratto di Tecnologie Digitali per l'Apprendimento presso l'Università Lumsa di Roma. Ha scritto numerosi articoli e saggi sul tema tra cui “Sciences for Inclusion. Cultural approach to disability towards the Society for all” e “Oltre il senso del limite" di Bonanno Editore.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here