Do more with less

Premessa, per evitare di essere frainteso: partiamo dall’assunto che la pubblica amministrazione italiana (comprendendo anche la Sanità) spende poco, troppo poco in ICT. Continuiamo a muoverci tra l’undicesima e la dodicesima posizione tra i paesi OCSE, se consideriamo la spesa ICT pubblica per cittadino. E questo non è bello.

pubblica-amministrazione-20Detto ciò, va anche detto che una buona parte di quel poco lo spendiamo male. E anche questo non è bello.

Partiamo da qualche numero: oltre 3.800 data center, quasi 59.000 server; circa 2 miliardi di righe di codice sorgente di software applicativo sviluppato ad-hoc, due terzi dei quali scritti in linguaggi ormai passati al vintage. Si tengono in vita, con un accanimento terapeutico degno del migliore integralismo, decine di mainframe dedicati a far girare eroici applicativi la cui manutenzione evolutiva è affidata ad arzilli settantenni, unici rimasti a raccapezzarsi tra cose come il CICS e l’RPG. (Se, leggendo, non capite di cosa sto parlando, non preoccupatevi: roba di cinquant’anni fa).

Non più di un centinaio di questi 3.800 data center è in grado di “tornare su” in tempi decenti dopo un eventuale crash; forse meno di 50 quelli capaci di garantire una vera continuità operativa.
Interpellando i CIO di numerosi enti di dimensioni “minori”, ci si sente dire: “per ragioni di sicurezza, non posso darvi informazioni sulle nostre policy di sicurezza”. Un modo elegante di dire “se tutto va bene, siamo rovinati”. Il tema della razionalizzazione dell’infrastruttura IT della pubblica amministrazione italiana è, come si dice, “all’ordine del giorno” da almeno un paio di anni: il primo a parlarne seriamente fu l’allora ministro Corrado Passera. L’idea era (e rimane) quella di consolidare tutta l’infrastruttura in un numero piccolo a piacere (fluttuante da 8 a 30, secondo i vari documenti nel frattempo allestiti) di data center di nuova generazione. Non disdegnando, e – anzi – incentivando, operazioni di partenariato pubblico-privato capaci di accelerare un’iniziativa il cui costo non è affatto banale.

Netics nel 2012 stimò un investimento necessario di circa 7-800 milioni di Euro per la “prima tranche” (consolidamento dell’infrastruttura dal punto di vista hardware) e di un paio di miliardi per dar vita a un’operazione di “rottamazione” del software obsoleto finalizzata a rendere disponibile in cloud applicativi il più possibile standardizzati e utilizzati in modo condiviso dal maggior numero di amministrazioni.

Andando a vedere in dettaglio la composizione della spesa attuale IT della PA, si scopre che dall’abbattimento dei costi di conduzione degli attuali data center si potrebbero risparmiare non meno di 400 milioni all’anno. A fronte di un investimento di 800, ammortizzabile in cinque anni. La razionalizzazione del software applicativo, per conto suo, farebbe risparmiare all’incirca 450 milioni l’anno (corrispondenti agli attuali costi di manutenzione correttiva ed evolutiva degli asset software considerabili “obsoleti”) a fronte di un investimento di 2 miliardi (400 milioni l’anno di quota di ammortamento).
Come si vede, i conti tornano: nel primo caso (infrastruttura hardware), si risparmiano 240 milioni l’anno al netto degli ammortamenti; nel secondo, i milioni risparmiabili sono 50. Inoltre, 2,8 miliardi di investimenti significano 500 milioni abbondanti di IVA versata (come è noto, le amministrazioni pubbliche non scaricano l’IVA) e qualche migliaio di posti di lavoro in più al netto dalle “partite di giro” dovute alla cessazione delle attività di manutenzione del parco sw obsoleto.

 Tutto quadra, dunque. A patto che …
A patto che il piano di razionalizzazione sia accompagnato da un “piano di marketing”. Perché l’esito non è affatto scontato: come sempre, potrebbero prevalere le logiche di difesa dell’orticello da parte di una (speriamo) minoranza di CIO affezionati oltremisura ai propri data center.

A meno che … A meno che non si provi, una volta tanto, a forzare la mano. Rendendo “impossibile” la vita ai data center “autonomi”, ad esempio richiedendo requisiti stringenti in termini di sicurezza e risparmio energetico.

Le Regioni possono fare moltissimo, in questo senso: esercitando una robusta moral suasion nei confronti delle ASL e degli enti locali. E mettendo a disposizione, laddove esistenti, i loro data center costruendo una rete federata insieme alla PA centrale.
L’AgID sta lavorando esattamente in questa direzione, coinvolgendo soprattutto le Regioni che attraverso le loro società “in-house” possiedono infrastrutture capaci di evolvere verso questa rete federata di “nuvole pubbliche” (“pubbliche” nel senso della proprietà) che potrà diventare il sistema nervoso di una PA italiana finalmente al passo coi tempi.

 

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