Non diffamare l’innominato!

La notizia che la Cassazione penale ha annullato con rinvio l’assoluzione pronunciata dalla Corte militare d’Appello di Roma di un maresciallo della Guardia di Finanza che sul proprio profilo Facebook aveva usato espressioni diffamatorie nei confronti di un collega senza però nominarlo nel proprio commento ha fatto sorgere dei quesiti circa il limite tra la libertà di pensiero e la diffamazione sui social media.

diffamazioneQuale principio generale una dichiarazione e quindi anche un commento pubblicato su un social media ha portata diffamatoria quando, nell’ambito di una comunicazione a più persone (che nel caso dei social media può intendersi diretta a tutti i propri amici, followers o addirittura tutti gli iscritti alla piattaforma), è idoneo a ledere la reputazione altrui, vale a dire l’opinione che gli altri hanno di un determinato soggetto. E in questo contesto una delle circostanze aggravanti è proprio  l’utilizzo di un mezzo di comunicazione al pubblico che potrebbe comprendere una piattaforma social. Al contrario, non vi è diffamazione quando si esercita il proprio diritto di critica rispettando i limiti della verità, della pertinenza e della continenza.

Nel caso in questione la Cassazione ha valutato che anche se la persona a cui si riferiva il commento diffamatorio non era nominata “ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone, indipendentemente dalla indicazione nominativa“. Quindi il fatto che uno dei colleghi del “diffamato” potesse comprendere a chi il commento fosse rivolto bastava ad integrare gli estremi del reato.

Questa sentenza segue la notizia di qualche settimana fa relativa ad un famoso ristorante bolognese che aveva querelato uno dei propri clienti per aver pubblicato su TripAdvisor un recensione del ristorante definendo il vino servito “avariato, roba da creare problemi di salute“.

Certamente questi due precedenti illustrano un quadro alquanto “inaspettato” fino a qualche anno fa circa l’ambito della libertà di pensiero su Internet. I social media forniscono un mezzo di comunicazione che consente di raggiungere un numero potenzialmente illimitato di persone ma per questo motivo alcuni sostengono che un maggiore senso di responsabilità sia richiesto agli utenti.

In tale contesto è anche interessante una controversia occorsa lo scorso febbraio negli Stati Uniti in cui una donna aveva scritto una recensione negativa sul social media Yelp in cui dichiarava, tra gli altri, che un costruttore o i suoi collaboratori avevano rubato qualcosa dalla sua casa durante lo svolgimento dei lavori. Apparentemente questa donna aveva unicamente dei “sospetti” circa i soggetti responsabili del furto, ma questa review aveva di fatto distrutto il business del costruttore che aveva agito per diffamazione nei confronti della donna. La corte aveva raggiunto la conclusione che le parti si erano diffamate a vicenda tramite la recensione e le repliche alla stessa da parte del costruttore, ma mostra le possibili conseguenze negative sia per gli utenti che per le persone a cui i commenti sono indirizzati dell’utilizzo dei social media e il motivo per cui i tribunali stanno seguendo un approccio più conservativo sugli stessi.

Interessante è anche l’analisi dei profili di responsabilità dei gestori delle piattaforme sulle quali i commenti sono pubblicati. La normativa italiana in materia è dettata dal D. Lgs. 70/2003 di attuazione della Direttiva E-Commerce 2000/31/CE che definisce un principio generale secondo cui l’hosting provider, cioè il sito che ospita contenuti di pubblicati da terzi (i.e. commenti, video, articoli, recensioni), non è tenuto a monitorare e non è responsabile per gli stessi. Un’eccezione a tale principio si applica nel caso in cui hosting provider venga a conoscenza del contenuto illecito di tali contenuti e su comunicazione delle autorità competenti non proceda alla loro rimozione.

Il principio sopra esposto è stato interpretato dai tribunali italiani con esiti molto diversi negli ultimi anni e in particolare ha ottenuto notevole rinomanza la controversia tra RTI e YouTube in relazione ai video del reality show il “Grande Fratello” pubblicati su YouTube. Il tribunale di Roma ha ritenuto responsabile YouTube per i video pubblicati sulla piattaforma dai propri utenti in violazione dei diritti d’autore di RTI nel procedimento cautelare ritenendo che il regime di esenzione della responsabilità non fosse applicabile a YouTube, ma dovremo vedere quale sarà l’esito finale della controversia.

Infine, i principi sopra esposti sulla responsabilità degli Internet Service Provider potrebbero essere alterati almeno per quanto riguarda le violazioni in materia di diritto d’autore a seguito della recente entrata in vigore del nuovo regolamento AGCOM la cui efficacia deve essere ancora testata. Il regolamento prevede un procedimento alquanto sommario e di breve durata ed è da chiedersi quindi se questa tipologia di procedimenti siano l’approccio da seguire per le controversie relative al mondo di Internet o, come alcuni sostengono, questi giudizi sommari rischino di generare una sorta di censura di Internet.

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