Partenariato e leggende metropolitane

Ebbene sì: a furia di parlarne, qualcosa finalmente sta per succedere.

Quell’oscuro oggetto che è il partenariato pubblico privato associato alla digitalizzazione della PA e della Sanità in Italia comincia finalmente a prendere forma, nonostante qualche residuale resistenza alimentata da leggende più o meno metropolitane basate sul principio in base al quale i “fornitori” (e già da qui, dal chiamarli “fornitori”, si capisce tutto) altro non sono che demoniache entità votate al “tirare sòle” a una PA vittima di ogni tipo di angherie e bidoni.

A questo punto, vale la pena di approfondire il tema. Cercando di mettere ordine in un campo dove ancora in molti pensano che il partenariato pubblico-privato (PPP) altro non sia che il project financing di prima generazione: quello, tanto per capirci, che altro non era che un “leasing” più o meno mascherato. Un soggetto che finanzia, una PA che “paga a rate”. Il modello, tanto per capirci, attraverso il quale sono stati costruiti alcuni grandi ospedali pubblici in questi ultimi dieci anni.

Le cose, fortunatamente, stanno in tutto un altro modo.

Il PPP applicato all’innovazione in ambito pubblico segue delle regole precise. Innanzitutto, non è (o perlomeno non dovrebbe essere) un modello applicabile a iniziative di mera innovazione tecnologica: il focus è, e deve rimanere, sull’innovazione di processo, sull’efficientamento e la razionalizzazione del “modus operandi”. La tecnologia è, e deve rimanere, un “di cui”, lo strumento fiancheggiatore della reingegnerizzazione di uno o più processi di erogazione di un servizio.

Lo scopo del gioco è evidente, persino banale: recuperare efficienza, generando valore in termini di risparmio e/o semplificazione nei confronti dell’utenza.

Il modello operativo è altrettanto semplice: uno o più soggetti portatori di forti competenze di organizzazione, insieme a uno o più soggetti portatori di soluzioni tecnologiche (e, se necessario, appoggiati da una o più istituzioni finanziarie con funzioni di anticipazione degli investimenti necessari) si affiancano a una o più amministrazioni pubbliche con l’obiettivo di ridisegnare completamente uno o più processi di erogazione di servizi. L’intera operazione, comprensiva di tutti gli investimenti tecnologici necessari, viene supportata finanziariamente dalla componente privata, la quale viene successivamente remunerata sulla base di metriche legate al raggiugimento/superamento di soglie minime predefinite di miglioramento dei servizi resi all’utenza (cittadini, pazienti, ecc.).

In funzione della tipologia di intervento, possono essere adottati modelli differenti quali ad esempio:

  • revenue sharing: i ricavi conseguiti vengono condivisi per un numero ragionevole di anni (non meno di 5) tra le componenti pubbliche e quelle private all’interno del partenariato. Il modello è applicabile in tutti quei contesti dove è possibile prevedere l’introduzione di fee a carico degli utenti o dove già tali fee sono applicate (procedimenti amministrativi che prevedono la corresponsione di “diritti” a carico dell’utenza, pagamento di ticket sanitari, ecc.). Sotto il profilo giuridico-amministrativo, i modelli di revenue sharing si concretizzano attraverso l’istituto dell’affidamento in concessione di servizi.
  • cost-saved sharing: la riduzione dei costi realizzata attraverso l’innovazione di processo viene condivisa tra componenti pubbliche e private del partenariato, sulla base di metriche concordate preliminarmente e a fronte di una misurazione periodica della performance conseguita. Il modello si applica perfettamente in tutti quei casi dove l’innovazione è in grado di abbattere sensibilmente i costi di erogazione del servizio (esempi classici, la gestione della logistica del farmaco in ambito ospedaliero e/o territoriale e molti progetti in ambito “smart city”).
  • pay per improved: la componente privata del partenariato viene  sulla base di un modello duale, con un canone fisso a ristoro dei costi e una premialità periodica commisurata all’incremento dei livelli di servizio resi. Il modello è applicabile anche in tutti quei casi dove l’outcome di un’iniziativa progettuale è esprimibile in termini di semplificazione amministrativa e dove quindi i risultati positivi sono riscontrati direttamente dall’utenza finale (cittadini) piuttosto che dall’amministrazione pubblica.

Questi appena descritti sono tre modelli applicabili, ma ve ne sono ovviamente altri capaci di adattarsi a contesti specifici e particolari.

Il denominatore comune è evidente: pubblico e privato all’interno dei partenariati sono indissolubilmente legati nel condividere “onori e oneri”. Non esistono più situazioni all’interno delle quali il “fornitore” non si preoccupa dell’outcome, limitandosi a gestire gli aspetti formali “di capitolato” che gli consentono di incassare le fatture emesse a fronte di quanto fornito.

Specularmente, non esistono più progetti scritti sulla base di fascinazioni tecnologiche e capitolati redatti sul paradigma dell’opera edile (un tanto al metro, un tanto al chilo).

Domanda e offerta sono corresponsabilizzate e “socie in solido”, e il focus è interamente sul risultato finale e sul suo impatto nei confronti dell’utente finale (cittadino, impresa, paziente, ecc.).

Da qui al mettere in pratica questi o altri modelli di partenariato, il passo potrebbe essere breve. “Potrebbe”, perché di mezzo c’è la solita quantità di attrito rappresentata dalla lobby della conservazione. Una lobby molto più organizzata di quella dell’innovazione, potendo contare su interi “pezzi” dell’apparato burocratico e su qualche furbetto del quartierino rappresentato da chi – tra i “fornitori” – ha tutto da perdere se il focus si sposta dal capitolato al risultato.

Abbiamo bisogno di modelli, e di qualche buon esempio rappresentato da qualche amministrazione capace di sparigliare su un tavolo le cui regole del gioco non stanno più in piedi.

In ballo non c’è “soltanto” il mercato ICT del public sector: c’è, in tutta la sua evidenza e significatività, l’intera macchina dello Stato.

Mica vorremo gripparla, vero?

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