Il software libero e la comunità

Lo ammetto, quando si parla della comunità del software libero ho un atteggiamento radicale, ma in dieci anni di attività ho visto troppe cose fatte nel nome della comunità, in modo da occultare gli interessi di una singola azienda o – peggio ancora – di un singolo individuo, per riuscire a tacere (e chi mi conosce sa che la diplomazia non è il mio forte).

Open sourcLa comunità del software libero ha una componente fondamentale di lavoro volontario. Utilizzo volutamente il termine “componente fondamentale” perché secondo me è sbagliato dire che si basa sul lavoro volontario. Infatti, è giusto che coloro che si impegnano come volontari trovino una forma di compenso – anche, ma non solo, monetario – per la loro attività.

I volontari non si assumono e non si licenziano, ed è per questo che la comunità non piace alle aziende, che spesso risolvono il problema piazzando il “community manager” – un ossimoro – tra loro e la comunità stessa, per cercare di fare l’unica cosa che non si dovrebbe mai fare, ovvero gestire la comunità.
I volontari, infatti, non si assumono e non si licenziano, ma si possono solamente motivare, indirizzandoli verso un obiettivo, ma lasciandogli quella libertà che è la vera moneta di scambio all’interno dell’organizzazione. Un volontario si diverte, e quando smette di divertirsi se ne va, perché viene a mancare l’elemento della sfida che è anche il motore del suo impegno.
E quando un volontario se ne va, può farlo in due modi: salutando, spesso con un email che funge da “testamento spirituale” (potevamo fare cose bellissime, ma gli eventi ci portano a prendere strade diverse…), oppure – se non è da solo – con un fork del progetto, per riconquistare la libertà di fare il volontario.

Il fork è un evento traumatico per la comunità di origine, e una grande festa per la nuova comunità. Naturalmente, i risultati del fork sono quasi sempre in linea con le motivazioni: un fork propositivo è quasi sempre destinato al successo, mentre un fork ostile è quasi sempre destinato al fallimento. Lo dice la storia.
Un fork ispirato da un’azienda è quasi sempre un fork ostile, proprio perché l’azienda ha un DNA che va in direzione opposta a quella della comunità, per cui utilizza il fork come una “lezione” per coloro che hanno avuto l’improntitudine di sfidarla… E siccome non capisce una cippa di comunità, finisce quasi sempre con il fare una figuraccia, perché – indipendentemente dall’investimento – non riesce ad aggregare la comunità ma solo gli opportunisti, ovvero coloro che vedono nell’azienda il trampolino per la scalata al successo.

La storia, però, è ineffabile, e non perdona. E’ ineffabile perché, alla fine, vince sempre il cavaliere senza macchia, o – nel caso del software libero – l’intelligenza collettiva della comunità (contro la stupidità della burocrazia aziendale). E non perdona, perché non ammette l’ignoranza che deriva dallo studio della storia stessa (perché anche nel mondo del software libero è già successo tutto, e il contrario di tutto, per cui basta solo guardare indietro e meditare).

La comunità è un aspetto fondamentale anche per le aziende che utilizzano il software libero, perché solo la presenza di una comunità attiva e dinamica – che non esclude la presenza di una o più aziende tra gli sponsor del progetto – offre la garanzia di un progetto “sano” e soprattutto destinato a durare nel tempo.

CommunityPurtroppo, la maggior parte di coloro che non conoscono il software libero pensa che la presenza di una grande azienda dietro a un progetto sia una garanzia per la stabilità del progetto stesso, mentre nella realtà avviene esattamente il contrario, per cui la presenza dell’azienda è quasi sempre foriera di problemi.
Le aziende, con le pochissime eccezioni di quelle che conoscono a fondo il software libero (un nome su tutti, anche se non è l’unico: RedHat), perseguono i propri obiettivi di business, con cicli quasi sempre triennali o poco più, per cui non riescono a garantire la solidità e la continuità che solo una comunità attiva e dinamica riesce a offrire (anche se questo sembra molto strano a chi conosce solamente la realtà aziendale).
Quindi, anche il supporto che arriva dalla comunità è migliore rispetto a quello che viene offerto da qualsiasi organizzazione esterna alla comunità stessa, anche nel caso in cui quest’ultima sia un’azienda che eroga supporto professionale per il software proprietario.

Il progetto di certificazione sviluppato per LibreOffice mira proprio a creare un riconoscimento per i professionisti che aderiscono alla comunità e ne rispettano i principi, per distinguerli da coloro che rimangono al di fuori della comunità per sfruttarne il lavoro in modo del tutto passivo.
E sarebbe molto bello se le aziende e le organizzazioni che utilizzano il software libero imparassero a riconoscere la comunità, quella vera, e i suoi componenti, distinguendoli da coloro che la comunità la citano ma non la praticano.

Il software libero farebbe un passo significativo in avanti, a vantaggio di tutti.

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Laureato in Lettere all’Università Statale di Milano, è uno dei fondatori di The Document Foundation, la "casa di LibreOffice", nonchè portavoce del progetto a livello internazionale; è anche fondatore e presidente onorario della neonata Associazione LibreItalia. Ha partecipato ad alcuni tra i principali progetti di migrazione a LibreOffice, sia nella fase iniziale di analisi che in quella di comunicazione orientata alla gestione del cambiamento. Ed è autore dei protocolli per le migrazioni e la formazione, sulla base dei quali vengono certificati i professionisti nelle due discipline. In questa veste è coordinatore della commissione di certificazione. Come esperto di standard dei documenti, ha partecipato alla commissione dell'Agenzia per l'Italia Digitale per il Regolamento Applicativo dell'Articolo 68 del Codice dell'Amministrazione Digitale.

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