La Cassazione condanna il troll: « È diffamazione anche se non fa il nome»

Condannato. O meglio, annullato il suo precedente proscioglimento. Reato: diffamazione pluriaggravata. Il “colpevole”: un maresciallo della Guardia di Finanza che aveva rivolto accuse infamanti verso un collega sul proprio profilo Facebook.

stop-sign«Eppur si move?», verrebbe da chiedersi. Accade dunque qualcosa nello sconsolante panorama della giustizia, in quella prateria sconfinata ove liberamente, o quasi, si muovono ancora «troll» e «hater» quando vogliono gettar fango e aizzare risse contro qualcuno? Chissà se bisogna esser militari per forza per veder posta in essere una autentica attività di #StopWebViolence. Fatto è che, come riportato da Repubblica, la Cassazione ha stabilito che è «diffamazione parlar male su Facebook» di qualcuno. E attenzione: «anche senza fare nomi».
«Attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega raccomandato e leccaculo… ma me ne fotto per vendetta…». Questo il maresciallo aveva ben pensato di scolpire a eterna memoria digitale sul proprio diario social, pensando forse che la cosa restasse “fra quelle quattro mura”. O forse no. Magari l’intento era proprio quello di farlo sapere al mondo. Questo, d’altronde, fa «chi odia»: «trolla» urbi et orbi, e più è grande il muro della vergogna che riesce a innalzare contro la vittima prescelta, maggiore è la sua soddisfazione «narcisistica, machiavellica e sadica».

Non che comunque l’obiettivo delle sue accuse, anche qualora quelle parole fossero riecheggiate solo nella cerchia dei suoi contatti più stretti, non fosse ben riconoscibile. Difficile immaginare che, ad averlo «defenestrato» quel giorno a quell’ora, fosse stato un «codazzo» di aspiranti «soffia-poltrone».

E i giudici l’hanno capito. Come hanno capito la portata denigratoria e violenta, socialmente pericolosa e dunque perseguibile secondo le leggi del Codice Penale, di una simile frase, anche e proprio perché scritta su una parete e, per di più, digitale: che non passa, resta, e non ci sono «diritti all’oblio» che tengano. In primo grado il maresciallo è stato condannato a tre mesi di reclusione militare (con i doppi benefici). La Corte militare d’appello di Roma lo ha poi prosciolto, per l’anonimato delle offese sul social, che «avrebbe impedito di arrivare al diretto interessato». Il procuratore generale militare ha però poi impugnato in Cassazione la sentenza di secondo grado. E la Suprema Corte? Ha accolto il ricorso, annullato con rinvio l’assoluzione, che era stata pronunciata dalla Corte militare d’Appello di Roma e disposto così un nuovo processo d’appello. «Ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione – si legge nella sentenza – è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone, indipendentemente dalla indicazione nominativa».

Notevole, a leggerla così. Con tanti saluti a chi parla male (o peggio) di te e si giustifica: «Ah beh, ma io mica mi riferivo a te! E poi che vuoi… Ero sul mio profilo privato!».

privacy«Privato», privacyChi era costei?…

Anche se il tuo nome non vien fatto, dunque, anche se è solo su un profilo personale Facebook, ma è chiaramente identificabile al di là di ogni «ragionevole dubbio», l’ipotesi di reato si configura. Basta «la volontà che la frase venga a conoscenza anche soltanto di due persone», scrivono i giudici.

Che dovrebbe accadere allora quando espressioni ugualmente diffamatorie vengono pubblicate, rilanciate, ricondivise e propagate da squadre di account su Pagine pubbliche di Facebook, profili Twitter (pubblici), e ancora forum, blog, siti?… Dovrebbero scattare manette immediate. Sappiamo però che questo non accade. La violenza online si propaga quasi indisturbata e miete vittime: non solo i casi, eclatanti ed estremi, di suicidi di giovani che non reggono alla vergogna, ma anche “solo” di chi paga conti, salati e ingiusti, in termini di tranquillità, serenità, salute, o rispettabilità e reputazione,  per colpa di chi – per invidia o altri più loschi fini – si sveglia un giorno e decide di lapidarti sulla pubblica piazza virtuale.

«Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?», ci domandiamo con Dante ancora una volta. Il mondo della Rete, proprio in quanto sempre più parte dei nostri tradizionali canali espressivi, non è certo «un altro mondo» rispetto a quello «cosiddetto reale», ove vigono leggi, reati e sanzioni. Perché non dovrebbero dunque poter valere le stesse regole, debitamente applicate ai social? Proprio la Cassazione, ancora una volta, ricorda: «non può non tenersi conto dell’utilizzazione del social network», benché «non si tratti di strumento finalizzato a contatti istituzionali tra appartenenti alla Guardia di Finanza».

La notizia, tra l’altro, non è nemmeno delle più recenti. Ma sta rimbalzando in rete proprio in questi giorni, con una attenzione in apparenza maggiore: segno forse di una maggior sensibilità al tema, data una emergenza «Web Violence» che giorno dopo giorno cresce dà prova di sé.

Ci auguriamo che qui davvero si tratti, come si suol dire, della «volta buona». Che più voci possano finalmente unirsi per costruire un limite al potenziale malevolo del web come del mondo in generale, senza ricorrere ogni volta alle capriole. Abbiamo diritto alla democrazia: per rintuzzare quelle tendenze anarchiche, demagogiche che si aggirano per i vicoli della Rete.

 

 

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