Il troll? Guru incompreso del web

«Guru e troll spesso si equivalgono. Il guru è un troll incompreso…».

Tutto inizia da qui: da una simpatica conversazione online con l’amico Stefano Epifani, a proposito di troll, diffamatori anonimi e quelli che… anonimi vogliono esserlo un po’ meno. Che anzi su popolarità e pubblicità si avventano come mosche sul miele. Sono i cosiddetti, presunti, «guru del web», noti per [pensare di] sapere tutto su tutti e, su tutto e tutti, sentirsi autorizzati a dire la loro, come fosse la parola definitiva.

Da alcune «istruzioni per ‪#‎troll molesti», che Stefano stava ironicamente impartendo dal suo profilo Facebook, è partito un thread cui non ho potuto resistere: e, tra una riflessione e l’altra, ecco emergere l’idea che alla fine, per il vero troll, l’anonimato non costituisca un «dogma». E che parecchi ve ne siano di troll ben poco segreti e molto conosciuti. «L’influencer», ho pensato io subito!

WIP_Lithium-IG06purple_cutChiaro, mica tutti. Vero però che, anche nel panorama dei signor-so-tutto-io, di esemplari interessanti in tal senso se ne trovano. Nessuna polemica qui sul concetto di «influencer», di guru del web: termini usati e abusati, che hanno comunque fatto il loro tempo. Interessa piuttosto lo spunto, nato casualmente, per una nuova definizione di troll: o meglio per un suo ampliamento, che ne arricchisce la personalità, già più volte definita come dell’«anonimo disinibito», un «narcisista, machiavellico, psicopatico, sadico» governato da una «Tetrade Oscura».

In questa nuova luce, l’hater mostra una faccia in più, che non annulla le altre, non contraddice i «cinque punti» in cui già avevamo declinato la sua «disinhibition», ma anzi li conferma. Non è forse il dilagare di demagogia e anarchia ad aprire la porta al dispotismo, alla presa del potere con la forza del tiranno?

«Il guru come troll incompreso»: quel «disturbatore online» che, se resta senza il seguito sperato, senza le risse auspicate che ha cercato di infiammare, sale sul trono e inizia a pontificare. «Il troll» – vien anche da dire all’inverso – «come guru», incompreso o no: quel «Marchese del Grillo» social che «io so’ io e voi nun siete’n c…», che sentendosi «divino, troppo divino», non trattiene più la nausea verso la presunta sciatteria incontrata a suo avviso in rete e inizia a sputar fango ovunque. Con precisione maniacale: (quasi) professionale. Lungi dal nascondersi, di ciò si fa vanto. Lui può: deve, quasi fosse una mission. Che tutti lo sappiano poi, e seguano il suo esempio, è un dovere non solo morale, ma un must.

Sì dunque all’idea del troll anonimo par excellence. Non si dimentichi però che i «troll» – haters, disturbatori online – possono annidarsi spesso anche nelle pieghe dei tanti «popolari da seguire» che lo stesso Twitter magari ti suggerisce. Nascosti – questo sì, a modo loro – tra le pieghe del loro bel vestito di «super-esperto-di», sono pronti a sfoderare un’anima fatta di odio, volontà di distruzione. Né questo ci stupisca: se il narcisismo è uno dei tratti genetici dei troll, chi è più narcisista di chi si autodefinisce «guru»?

Si spiega dunque meglio così anche la numerosità dei troll, di cui statistiche e ricerche restituiscono foto dell’impressionante crescita di recente. Stando a un recente studio di Lithium, il 42% delle maggiori compagnie è stata, o è, vittima di «public shame» da parte dei propri clienti: è stata cioè letteralmente «svergognata», «disonorata», «diffamata» online dai propri customers. I quali dunque, nella migliore delle ipotesi, avranno ricoperto online il brand degli insulti peggiori. Un’esperienza poco piacevole, vissuta da quasi la metà delle aziende.

Ciò da un lato, in positivo, significa certo spinta all’innovazione: non a caso l’82% dei brand conferma una forte crescita delle aspettative da parte dei clienti negli ultimi 3 anni. «Il cliente è cambiato per sempre», ha dichiarato Rob Tarkoff, presidente and CEO di Lithium Technologies commentando la ricerca. D’altro canto, però, emerge l’incidenza del fenomeno troll nel social caring e, in generale, nel mondo social. Non si tratta qui solo di assistenza online, di una modalità diversa, più rapida ed efficiente, tramite cui i clienti si rapportano all’azienda in caso di problemi. Qui si tratta di offesa pubblica, del «mi alzo la mattina e dopo la doccia, mentre prendo il caffè, apro Facebook e passo un’oretta a sfogliare le Pagine vomitando bile addosso a chiunque. Giusto così, per sfogarmi un po’ e cominciar meglio la giornata».

Se è vero, come ha sottolineato Jay Baer, che «la gente che si lamenta online» si divide in due categorie – «chi ha bisogno di aiuto» e chi di «attenzione» – la fetta di quegli haters che sono in cerca semplicemente di attrarre su sé l’attenzione le luci dei riflettori rischia di farsi sempre più ampia. Se dunque resta valida l’esortazione «Hug your haters», «abbraccia i tuoi detrattori», sostenuta da Baer – già teorico di quel «marketing about Help, not Hype», della «youtility» come qualità principale del prodotto da vendere per ottenere successo nel business – dall’altra forse non è indistintamente vero che l’altra guancia vada porta proprio sempre a tutti.

Aiuta insomma per vendere. Per lo stesso motivo, però, «don’t feed the troll»: famoso o no che sia.

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