«Don’t feed the troll»: principio noto, già identificato come uno dei cardini del #SocialCare, che garantisce la qualità del servizio offerto al cliente nella misura in cui preserva dallo «spreco di energie», da un impiego delle forze in «chi distrugge» e non in «chi fa». Investimento inutile e dannoso, poiché imprigiona il tempo e impedisce di dedicarsi a chi davvero ha bisogno.
«Trolls just want to have fun», titola un recente studio di Erin Buckels, Paul Trapnell e Delroy Paulhus, ricercatori canadesi del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Manitoba.
«Troll» questo [s]conosciuto, sempre più al centro delle ricerche di psicologi ed esperti: un «narcisista, machiavellico, psicopatico, sadico» – così ne è stata definita la genetica psicologica – governato da una «Tetrade Oscura» contro cui è bene vaccinarsi. Il “porgere l’altra guancia” tipico del Social Care non può essere cieco: se no anche il maggior dono si fa sterile.
In questa riflessione si inserisce la nuova analisi, uscita proprio pochi giorni fa, di Academic Earth, che individua che cosa esattamente debba spingerci a mettere per sempre «una croce sopra sul troll»: la «disinhibition», la perdita di freni inibitori. Come illustrato nel video pubblicato dal noto Istituto di formazione, «disinibizione» è il fattore psicologico dominante che “bolla” il troll, qualificandolo come personaggio da cui tenersi lontani: «l’abbandono dei freni sociali» incrementato dall’anonimato, una «cultura» – secondo David Auerbach – dove «non c’è modo di vedere chi gioca in campo» e si ha a che fare solo con «giocatori anonimi, in un gioco senza regole». Un campo che «Internet è predisposto a rendere più fertile»: «è la prima volta in cui ogni discorso è anzitutto scritto invece che parlato».
Cinque i fattori scatenanti della disinhibition, messi a fuoco dallo psicologo John Suller:
- Anonimato dissociativo e invisibilità: non mi conosci e non mi puoi vedere
La rete permette a ognuno di reinventarsi ruoli diversi da quelli vissuti nella quotidianità. Michael Brutsch, tranquillo 49enne americano programmatore di computer, tutto casa e famiglia, amante degli animali, è salito agli onori delle cronache come «Violentacrez», uno dei troll più tristemente noti, che si muoveva su Reddit a colpi di offese, ingiurie e spinte alla violenza. «Vioentacrez è ciò che facevo nel tempo libero per rilassarmi dopo 10 ore di lavoro al giorno», ha dichiarato Brutsch. - Asincronia: ci vediamo dopo
La violenza in rete è sottile. E passa anche per lanciare l’esca, aspettare che l’obiettivo abbocchi, lasciarlo a mollo, a cuocere nel suo brodo per assicurarsi che resti ben attaccato all’amo e, dopo averlo fatto rosolare nel mezzo dell’agone, dell’arena teatro della rissa, tirarlo su all’improvviso, cogliendolo di sorpresa, certi che la vittima non potrà ribellarsi. E si tornerà bel belli a casa col bottino. - Introiezione solipsistica: è tutto nella mia testa
Se regna l’anonimato, ognuno è libero di assegnare all’altro le caratteristiche che vuole. E di giocarci come meglio gli dice la sua mente, difendendo l’orticello online che piano piano si è costruito. Nella «A-culture», la «Cultura dell’Anonimato», come la definisce Auerbach, «i partecipanti vedono l’estraneo come una minaccia al proprio territorio». E lo assalgono. - Immaginazione dissociativa: è solo un gioco
Come mostra il caso di Brutsch, il troll può in ogni momento dismettere i panni e tornare alla sua vita normale: giustificando le violenze seminate in rete come un semplice gioco, che non fa male a nessuno. Peccato che sul campo si siano lasciati morti e feriti: non sempre solo virtuali. - Minimizzazione dell’autorità: siamo tutti uguali
«Internet» – spiega lo studio – «offre un’opportunità unica agli individui di interagire liberamente attraverso le reti social». Come si vede soprattutto in politica. «Alcuni partiti assoldano gente per “trollare” nei forum diffondendo il loro verbo. Forse solo online un troll ha davvero la possibilità di attaccare direttamente un Presidente: privilegio riservato solo a chi gli è vicino»
La perdita di freni inibitori online mostra che i troll sono «opportunisti»: fanno il loro gioco in rete radicandosi nell’anonimato. E il problema è che in realtà non giocano mai da soli. La gente è portata a «ingaggiarli»: finisce per «volere» mettersi a discutere con loro, e così farsi trascinare nella mischia, nei tafferugli, nella “collutazione” online e non solo. «Non se ne può fare a meno», si vuole avere la meglio, ribadire la propria posizione. Ma non si deve mai «discutere con uno stupido», dice il proverbio: «ti trascina sul suo terreno», al suo livello, e «ti batte per esperienza».
Il gioco dei troll non è una «partita al solitario». «Ci si deve impegnare a sopprimere con determinazione la deregulation» di chi apre bocca e pensa che un tweet – solo perché suo – sposti le montagne». La sola via per combattere i troll è ignorarli: «non giocare al loro gioco». Occorre saper dire «Noli me tangere». La Social Education è tutt’uno col #SocialCare e col proprio generale essere social.
Di fronte ai ring squadernati dai troll, trappola che sottrae tempo a chi ha davvero necessità di aiuto, si deve riaffermare un «no» e un «sì». No alle risse, a chi accende flame col solo scopo di ferire, di infiammare la rete. Sì a quanti realmente, invece, richiedono attenzione. Ignorare quelli e valorizzare questi. «Non curarsi di lor», ma «guardare e passare»: questo è il detonatore principale per far esplodere e liberare energie positive da riservare al “prossimo”.
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