Nuovo CAD e software libero: una relazione complicata?

Un documento scritto e condiviso in Google Drive gira in Rete da qualche giorno come fosse merce di contrabbando: qualcuno vocifera sia il “nuovo Codice di Amministrazione Digitale”, quello che sembrerebbe essere stato approvato in via preliminare dal Consiglio dei Ministri lo scorso 21 gennaio. “Al di là – fa notare l’esperto di diritto delle nuove tecnologie Carlo Piana – della consueta mancanza di trasparenza e di discussione pubblica su provvedimenti delicati e di sistema, un problema di lunga data nei provvedimenti legislativi delegati, in cui solo gli amici degli amici hanno la possibilità di dire la loro, le modifiche proposte al CAD hanno almeno due rilevanti problemi”. E forse anche più di due se non ci si sofferma soltanto, come faremo in questo articolo, sugli aspetti legati alla diffusione del software libero in Pubblica Amministrazione.

Il vecchio CAD conteneva il “famoso” (per gli appassionati dell’open source) art. 68 (da leggere al n. 55 della bozza) recante “analisi comparativa delle soluzioni”, rimasto dopo la presunta modifica purtroppo “monco”, vista l’abrogazione dei commi 2, 2-bis e 4.

Ai sensi dell’abrogato comma 2 le Pubbliche Amministrazioni, nella predisposizione o acquisizione dei programmi informatici, dovevano adottare soluzioni informatiche quanto possibile modulari e basate sui sistemi funzionali resi noti ai sensi dell’art. 70 (banca dati programmi informatici riutilizzabili), che assicurassero l’interoperabilità e la cooperazione applicativa e consentissero la rappresentazione dei dati e documenti in più formati, di cui almeno uno di tipo aperto. “L’accento posto dalla disposizione alla modularità, all’interoperabilità e cooperazione applicativa e alla rappresentazione in formato aperto – afferma la giurista Fernanda Faini – era opportuno e apprezzabile: non è immediatamente intuibile la ratio alla base della soppressione del comma stesso (che non sembra recuperato in altre disposizioni)”. Viene abrogato anche il comma 4 relativo al repertorio dei formati aperti utilizzabili dalle Pubbliche Amministrazioni e delle modalità di trasferimento dei formati e il comma 2-bis che prevedeva una comunicazione tempestiva da parte delle PA all’Agenzia per l’Italia digitale delle applicazioni informatiche e delle pratiche tecnologiche e organizzative utilizzate, anche ai fini di riuso. “Tale abrogazione – continua la Faini – potrebbe non doversi intendere come vera e propria soppressione, ma come esigenza di semplificazione e sistematicità, dal momento che resta l’art. 70 relativo alla banca dati sul riuso.”: di conseguenza Faini sulla norma conclude: “Il favor per le soluzioni disponibili e open resta (rimangono i commi 1-bis e 1-ter con una modifica che non impatta su questo aspetto), anche se l’accento su alcuni aspetti significativi non è più presente (data l’abrogazione del comma 2), viene eliminato un riferimento esplicito al repertorio dei formati aperti (forse però da considerarsi riassorbito nella banca dati sul riuso) e si indebolisce la cogenza del riuso di soluzioni per le amministrazioni centrali”.

Ma che fine fa allora l’open source in Italia proprio nel momento in cui il Parlamento europeo, nella Risoluzione che ha dato seguito a quella sulla sorveglianza elettronica di massa dei cittadini dell’Unione (2015/2635(RSP)), ha ribadito la propria posizione in merito alla sostituzione sistematica di software proprietari, sostenendo la necessaria migrazione verso soluzioni software open source, attraverso l’introduzione di un criterio di scelta obbligatoria delle soluzioni open a favore di quelle proprietarie in tutte le future procedure di appalto per il settore ICT?

“E’ vero – sottolinea la giurista Morena Ragone – che questo punto non è stato toccato all’interno dell’art. 68, laddove la scelta dell’apertura resta una delle possibili e prevalenti alternative della valutazione tecnico-economica delle soluzioni disponibili sul mercato; ma la mancata previsione dei formati aperti quale significato prospettico ha? E poi, a cosa si interfaccia, ora, la definizione dell’art. 68, comma 3, dove il “formato dei dati di tipo aperto” è “un  formato  di  dati reso pubblico, documentato esaustivamente e neutro rispetto agli strumenti tecnologici necessari per la fruizione dei dati stessi”?

Come sottolinea Carlo Piana “Abolire il secondo comma dell’art. 68, quello che impone (giustamente) alle pubbliche amministrazioni di privilegiare soluzioni che rispettino l’interoperabilità e la cooperazione applicativa è come rimuovere un potente motore di concorrenza nei servizi realizzati dalle pubbliche amministrazioni, e di compartecipazione del mercato nell’offerta di soluzioni che si interfaccino con tali servizi. L’interoperabilità è un imperativo ampiamente rimarcato nell’European Interoperability Framework: ancora una volta avevamo una norma all’avanguardia e che ci faceva primeggiare, andiamo ad abolirla in nome di cosa?”

Altro aspetto su cui poi fare una riflessione è il fatto che, dalle modifiche effettuate, si andrebbe a privare AGID del compito di offrire un parere, a chiunque sia interessato, sul rispetto delle linee guida nella valutazione comparativa e sul giudizio di impossibilità di adottare soluzioni in riuso o software libero. “Anche se si tratta di un parere poco richiesto – continua Piana – poteva essere l’occasione di una moral suasion nei confronti dell’Amministrazione a rispettare il vincolo normativo, che viene così di fatto svuotato. Se si aggiunge l’incremento esponenziale dei costi dei contenziosi amministrativi, sembra che l’imperativo sia quello di “non disturbare il manovratore”.
Questo documento che potrebbe anche essere, per il carattere di non ufficialità, uno scherzo di Carnevale, va quindi in direzione opposta rispetto a quanto anche il Parlamento Europeo ha stabilito. “L’equazione del Parlamento – sostiene Morena Ragone – è molto chiara: aperto uguale trasparente, trasparente uguale più sicuro.

Allora perché la scelta del Governo di depotenziare l’art. 68?”

Perché invece che incentivare (anche controllando e sanzionando) l’applicazione di un articolo che invitava all’uso del software libero da parte delle PA lo si svuota di contenuti importanti? Perché piuttosto che guardare ad altre virtuose realtà europee che adottano formati aperti come standard per i documenti della PA (ad esempio il Regno Unito) si tolgono i riferimenti ai formati aperti e alla necessità di interoperabilità? Perché di openness, partecipazione, trasparenza si parla solo nei convegni e all’atto pratico per capire come nasce una riforma bisogna affidarsi a spacciatori di bozze rubate?

La risposta agli esperti che non siamo riusciti a individuare nei nomi (forse per la stessa trasparenza di cui sopra?) che si sono seduti ai tavoli di innovazione digitale in cui si sono scritte le proposte di modifica. Esperti che ci auguriamo non abbiano una reazione alla Zalone maniera del cado dalle nubi.

Il presidente del Consiglio Renzi ha affermato che “Questi decreti entrano in vigore, ragionevolmente, a Pasqua”. Sarà per questo che avrà pensato di lasciare una sorpresa circa la “nuova” (non necessariamente migliore) PA digitale?

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