Il DESI e il passo del gambero del digitale italiano

Tanto tuonò che piovve. E la pioggia, questa volta, è la nuova edizione del DESI: l’indice che compara le performance dei paesi europei sui temi della società digitale.

I tuoni, d’altro canto, erano cominciati già nei giorni scorsi, con l’annuncio in pompa magna da parte di Matteo Renzi dell’arrivo di Diego Piacentini, previsto per il prossimo Agosto come nuovo “commissario” del digitale italiano. E, pare evidente, non si commissaria qualcosa che funziona bene. Un commissario che dovrà articolare le azioni di AgID, Consip e Sogei, forse sperando che dalla somma delle rispettive inefficienze si possa costruire un sistema efficiente. Non si sa ancora con quali deleghe, con che poteri, con che condizioni Diego Piacentini potrà provare a rimettere in moto la macchina del digitale italiano: ciò che è certo, al di là di considerazioni puntuali sulla figura e sui veri o presunti conflitti di interesse ai quali qualcuno ha fatto cenno, è che non sarà un lavoro facile. Ancora una volta il rischio è che si sia alla ricerca dell’ennesimo salvatore della patria che, per quanto bravo possa essere, se non messo nelle condizioni di operare potrà fare poco. Certo è che Piacentini è un osso duro: staremo a vedere.

Ma torniamo al DESI: nel 2015 l’indice ci piazzava in una non certo prestigiosa ventiquattresima posizione su 28 paesi considerati. Cosa è successo in un anno di lavoro matto e disperatissimo? Semplice: siamo scesi di una posizione. Peggio di noi solo Grecia, Bulgaria e Romania. La realtà dei fatti, indipendentemente da come si vogliano vedere le cose, è che siamo peggiorati. La realtà dei fatti è che il paese che l’anno scorso era nella nostra posizione oggi ci ha superato. La realtà dei fatti è che non va tutto bene, Madama la Marchesa.

Si potrebbe eccepire che un anno è poco per percepire un miglioramento. Certo, ma è anche decisamente troppo per vivere la coda di un peggioramento generato negli anni precedenti. C’è una non proprio sottile differenza tra non crescere e decrescere. Siamo classificati per un pelo tra i paesi “catching-up” (quelli che stanno recuperando), ma andando a guardare l’indice DESI nei dettagli vediamo come anche tra questi siamo sotto la media per quasi tutto: integrazione delle tecnologie digitali, uso di internet, capitale umano, connettività. Solo sulla digitalizzazione dei servizi pubblici il nostro tasso di crescita è nella media europea, ma con un gap da recuperare che, su questo specifico indicatore, ci vede in diciassettesima posizione: perdendo quindi un punto rispetto al 2015, quando eravamo sedicesimi. Anche su questo, quindi, rispetto agli altri paesi siamo peggiorati. Un anno perso non è poco, soprattutto se parliamo dell’ennesimo anno. L’ennesimo anno in cui – sostanzialmente – la situazione è ferma e si rimanda all’anno successivo. Fermo il piano sulla banda larga, praticamente fermo il piano crescita digitale. Ed un annuncio così anticipato dell’arrivo di Piacentini, che planerà a Palazzo Chigi solo tra cinque mesi, darà la scusa a tutto il sistema per attendere fino ad Agosto. Meglio sarebbe stato evitare di cadere nella trappola del fascino dell’effetto annuncio, lavorando dietro le quinte ed aspettando l’insediamento per darne notizia. Ma tant’è.

È indubbio che questo Governo più di altri abbia parlato di digitale. Tuttavia, nella sostanza, c’è ancora sin troppo da fare. E non è un problema di risorse economiche. I soldi sul digitale, a saperli cercare, ci sarebbero pure. Il vero problema è in primo luogo di visione, quindi di governance ed infine di classe dirigente.

  • Manca ancora la visione del digitale quale strumento per il rilancio del Paese, soffocata da una visione ombelicale di una amministrazione che guarda a sé stessa e per la quale il massimo che possiamo aspettarci dal digitale è che abbatta i costi della PA. Con questa prospettiva non deve stupire se l’IT viene considerato un costo e non un investimento. Per sapere in che modo il digitale possa essere d’aiuto per far crescere l’Italia dovremmo sapere che Italia ci aspettiamo, che Italia vogliamo. Dovremmo avere una politica industriale. Dovremmo conoscere le priorità strategiche. Dovremmo. Dovremmo. Dovremmo. Il problema non è relativo al digitale quindi, ma al fatto che tutto ciò non c’è. E non può esserci un’Italia digitale se non sappiamo che Italia vogliamo.
  • Quanto alla governance, per comprendere la dimensione del problema, basta pensare ai sette mesi di stop che ha subito il piano per la banda larga. Basta pensare allo scollamento tra le diverse realtà coinvolte in una governance che a guardarla il kamasutra pare un manuale da educande. Basta pensare a quanto si sta facendo con la tremenda riforma del CAD o con il nuovo ridicolo FOIA, che è addirittura un passo indietro rispetto al poco che già avevamo. Con la scusa che il digitale non può essere rinchiuso in un Ministero ad hoc il risultato è che esso non è un problema di nessuno e si perpetua una visione per la quale quella che dovrebbe essere una competenza diffusa e trasversale diventa, nella pratica quotidiana dei Ministeri e delle amministrazioni, qualcosa che non riguarda altri se non chi se ne occupa direttamente: ossia, appunto, nessuno.
  • In tutto questo, chi ci prova si trova di fronte un vero e proprio muro rappresentato da una classe dirigente che non vuole cambiare, che ha paura del rinnovamento, che teme di perdere potere, che – in fondo – non ha alcuna convenienza a che le cose funzionino meglio. Ed è forse uno dei problemi maggiori: nemmeno un Consigliere del Presidente del Consiglio – per quanto possa essere bravo – ha la possibilità di essere realmente incisivo, se si trova di fronte una amministrazione che nella migliore delle ipotesi non ha un reale interesse a cambiare, e nella peggiore è ostile al cambiamento. Non bastano gli eroi. Serve una classe dirigente decisa, ed un cambiamento culturale diffuso. E non serve prendersela solo con l’amministrazione e la politica: il problema è anche di una classe dirigente economica, che è ben lungi dal voler cambiare e che, invece, dovrebbe essere – semplicemente – cambiata.

In questa situazione lo scollamento tra il racconto della realtà e la sostanza delle cose non aiuta di certo, creando nella politica e nei cittadini aspettative che non si realizzeranno, ed abbattendo il livello di difficoltà percepita dalle amministrazioni per risolvere il problema. Un problema che spesso viene dato per già risolto e che invece richiede ancora gli sforzi quotidiani di quanti – per fortuna non pochi – ogni giorno ed a tutti i livelli si battono per il cambiamento. Paradossalmente, una battaglia tanto più difficile quanto più vissuta nella solitudine e nell’incomprensione di un sistema che – affascinato dai facili entusiasmi di uno storytelling sempre più distopico – non comprende le dimensioni di un problema ancora tutto da risolvere.

Eppure ogni volta che si prova a far presente che qualcosa non funzionerà si viene tacciati di esser gufi, disfattisti, nemici del cambiamento: anche quando si propongono alternative. E non resta che stare a guardare disastri ampiamente annunciati nelle dinamiche e nei risultati, ma anche nelle possibile soluzioni, come nel caso della triste avventura dei Digital Champions.

Purtroppo non abbiamo più tempo. Non c’è più spazio per tentativi. Non c’è più spazio per errori.

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