La proposta sulla sharing economy è legale?

La proposta di legge sulla sharing economy annunciata la scorsa settimana presenta degli ostacoli legali di non facile soluzione che fino ad oggi non sembrano aver ricevuto sufficiente attenzione. Un aspetto che fino ad oggi non è stato abbastanza analizzato è se la proposta di legge sia conforme alla normativa comunitaria che prevale sulla normativa nazionale in caso di contrasto.

In particolare, la proposta di legge prevede che:

  • i gestori delle piattaforme digitali “aventi sede o residenza all’estero devono dotarsi di una stabile organizzazione in Italia” al fine di poter operare come sostituti di imposta degli utenti operatori
  • i gestori sono obbligati all’iscrizione nel registro nazionale che l’AGCM dovrà istituire e rispetto al quale l’approvazione da parte dell’AGCM della policy aziendale è una condizione per l’iscrizione.

Ebbene, senza considerare le conseguenze di carattere fiscale che la costituzione di una stabile organizzazione in Italia da parte di un soggetto straniero comporterebbe, tale requisito rischia di essere considerato in violazione dei principio europeo della libera prestazione dei servizi. Questo principio obbliga a consentire alle società con sede in uno degli Stati dell’Unione europea di prestare i propri servizi in Italia senza limitazioni che non siano giustificate da motivi di “ordine pubblico”.

Allo stesso modo, la Direttiva E-Commerce prevede che gli Stati Membri non possano “limitare la libera circolazione dei servizi società dell’informazione provenienti da un altro Stato membro” e garantiscano che “l’accesso all’attività di un prestatore di un servizio della società dell’informazione ed il suo esercizio non siano soggetti ad autorizzazione preventiva o ad altri requisiti di effetto equivalente”.

La necessità di rendere l’obbligo di istituzione di una stabile organizzazione in Italia, il requisito della previa autorizzazione da parte di AGCM e dell’iscrizione nel registro delle piattaforme conformi con la normativa comunitaria non potranno essere ignorati nella revisione della proposta di legge sulla sharing economy. E questo è ancor più rilevante se si considera che la maggior parte delle piattaforme impattate dalle disposizioni della proposta non hanno sede in Italia.

Il nostro legislatore negli ultimi anni ha cercato di tassare, più che di regolare, le piattaforme online con risultati poco positivi. Anche con riferimento alla web tax, Google tax o simili di cui si è parlato molto in passato, il problema principale era stato la compatibilità con la normativa europea ed internazionale. Comprendo che il fine principale della proposta è di limitare le evasioni fiscali da parte degli “utenti operatori”, ma queste iniziative isolate da parte di singoli Stati rischiano a mio giudizio di danneggiare il Paese piuttosto che portare benefici.

Cito come esempio ciò che è accaduto in Spagna dopo l’adozione di una normativa volta ad obbligare i servizi di pubblicazione di link estratti da articoli  (i.e. Google News) a pagare un contributo all’Association of Editors of Spanish Dailies (AEDE). La conseguenza di questa normativa è stata l’uscita di Google News dal mercato spagnolo con una notevole perdita di entrare da parte degli editori locali il che ha mostrato l’inadeguatezza della mossa adottata dal Governo spagnolo.

Lo stesso effetto rischia di accadere con le piattaforme della sharing economy se – a parte le possibili violazioni della normativa comunitaria – la proposta continuerà a traslare sul gestore della piattaforma oneri che nel resto d’Europa e del mondo sono a carico degli utenti.

L’evasione fiscale in Italia è certamente un problema rilevante, ma soprattutto in un momento di crisi economica non credo sia possibile adottare misure che rischiano di pregiudicare il business delle aziende che operano in Italia.

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