Cinquant’anni. Mezzo secolo di storia ci separa dal momento in cui persone come Antonio Blasco Bonito, Stefano Trumpy, Luciano Lenzini e tanti altri – forse in parte inconsapevoli della dimensione della rivoluzione alla quale stavano dando il via – portarono internet in Italia. Cinquant’anni fa si accendeva la scintilla di un fuoco che avrebbe illuminato il futuro di un Paese, seppure tra mille difficoltà: quarto paese in Europa in ordine di tempo ad accedere alla rete; fanalino di coda solo trent’anni dopo. Trent’anni in cui la miopia della classe dirigente e l’incompetenza della politica avevano portato il Paese a perdere il treno dell’innovazione e sprofondare nel baratro dell’irrilevanza, tra agende digitali inutili e continui ritardi nelle opere infrastrutturali che sarebbero state indispensabili per metterlo nelle condizioni di competere sullo scenario internazionale. Opere come la banda larga che, aspettando Godot o il salvatore della patria di turno, non riuscivano ma a partire. E dire che di salvatori della patria se ne avvicendarono tanti, in quel periodo buio. Si arrivò addirittura a pensare che affidare il Paese nelle mani delle multinazionali del cloud potesse supportare la ripresa. Ma non servì a molto. Anzi.
Eravamo nel primo ventennio del nuovo millennio: la crisi non era certo solo riferita alla capacità del Paese di interpretare il ruolo della rete. Era una crisi complessiva. Una crisi dei valori che toccava tutta la società e che se da una parte allontanò le persone dalla politica e dalla cosa pubblica dall’altra gettò le basi per un cambiamento che avrebbe visto luce negli anni successivi. Un cambiamento che partì dal basso: dalle persone.
Ma doveva ancora andare molto peggio, prima di andare meglio. A livello nazionale si comprese troppo tardi il danno fatto al Paese quando le infrastrutture di comunicazione passarono in mano straniera. A livello internazionale ci fu un’epoca in cui la grande concentrazione di potere detenuta da pochi operatori della Rete (gestori di social network site, motori di ricerca, produttori di device) diventò realmente preoccupante. Avvenne in un contesto in cui i governanti non comprendevano l’entità del problema o – se la comprendevano – ne assecondavano le dinamiche. Ma poi si comprese anche che le rendite di posizione on-line sono flebili, che non durano molto, e che se da una parte è vero che la concentrazione di informazioni nelle mani di pochi è sempre un rischio, la resilienza nell’economia della conoscenza è tale da garantire, anche se talvolta in extremis, il giusto ricambio. Ci si rese conto di ciò quando la stella dei grandi colossi inizio a brillare meno forte, in un contesto in cui nuovi attori si affacciavano all’orizzonte.
Erano attori che meglio e prima di altri avevano compreso che la Digital Transformation non era solo una trasformazione del modo in cui si fanno le cose, ma una vera e propria trasformazione di senso. Il senso dell’economia, della società, delle relazioni. Comprendere le dinamiche di questo cambiamento si rivelò fondamentale per interpretare gli effetti di una trasformazione della quale se non si fossero colti i benefici si sarebbero subite le retroazioni negative. Per il Paese non fu facile superare la facile retorica dell’innovazione da salotto e il mito delle startup un tanto al chilo, in un contesto in cui piuttosto che ricercare i propri modelli ci si orientava a scimmiottare quanto fatto in altri contesti ed altre nazioni. Contesti totalmente diversi per natura, cultura, obiettivi.
Ma finalmente, dopo anni di tentativi e fallimenti, si comprese come per fare di Internet una risorsa per il Paese si dovesse prima di tutto capire quale modello di Paese si volesse supportare attraverso Internet. E solo allora si capì che il senso dell’Italia per la Rete non era quello di altre nazioni. Che non si potevano imitare modelli sviluppati all’estero sperando che funzionassero. Si comprese che la trasformazione digitale – nell’era dell’Internet delle Cose – si basava su una rivoluzione che partisse dalla comprensione del senso che potessero avere le cose per noi: per un Paese che doveva valorizzare la specificità dei suoi territori, della sua storia, della sua cultura. Per un Paese che doveva trarre dall’incontro della tradizione con i modelli di innovazione il suo valore più grande, piuttosto che immaginare che un bieco modernismo tecnocentrico potesse risolvere tutti i problemi. E fu così che solo quando ogni artigiano, ogni commerciante, ogni produttore – piccolo o grande che fosse – comprese che cambiare nella direzione della rete non vuol dire perdere la propria cultura, ma reinterpretarla valorizzandola attraverso le nuove tecnologie, l’Italia trovò il suo senso per la Rete. E la Rete, dopo un percorso durato decenni, ebbe finalmente un senso in Italia.
Oggi, nel 29 di aprile del 2036, dopo cinquant’anni dal primo giorno in cui Internet entrò nel nostro Paese, possiamo finalmente dire che grazie ad essa una vera rivoluzione di senso c’è stata.
Facebook Comments