Youtuber, storytelling e il necessario professionismo della cultura

Il settore del contenuto è uno dei grandi mercati dei prossimi anni e lo abbiamo anticipato nel precedente articolo. Per quel che concerne le piattaforme e i circuiti, senza dubbio è il video a pilotare la tendenza e, nonostante non vi siano ancora oggi factory competitive nella progettazione e produzione di format (attività troppo spesso lasciata al caso di un successo spontaneo) è utile fare delle puntualizzazioni.

Sono molti a sottolineare che il fenomeno delle web star non sia nato con YouTube e che, in casi precedenti (come ad esempio il momento verde dei blogger iniziato nella prima metà del 2000) ci siano state altre manifestazioni importanti dal punto di vista dei comportamenti degli utenti in rete. Eppure, un fenomeno (nell’accezione di straordinarietà ) è tale quando esce dal consueto, ed è tale perché si pone in riferimento a un ben preciso scenario. Le cosiddette star di YouTube, ad esempio, hanno sviluppato numeri impressionanti di utenza e di successo proprio in virtù dell’irripetibilità di questo momento, caratterizzato da una ben precisa deriva sociologica. Ne sono nati linguaggi ed estetiche molto complessi, difficilmente assimilabili a fatti e situazioni di cultura digitale precedenti. Facciamo alcuni esempi. Nell’immaginario di YouTube (cosa che non avviene per un blogger), l’idea di immediatezza del medium e di interazione con il pubblico ha plasmato completamente la modalità di divulgazione del contenuto, costruendo una specifica iconografia.

Se prendiamo i video di Marzia Bisognin, all’anagrafe CutiePieMarzia, classe 1992, con circa 6 milioni e mezzo di iscritti, piuttosto che quelli di Sofia Viscardi, ragazza milanese di 18 anni con 600 mila viewer (percentuale, tra le altre cose, in crescita), ci troviamo di fronte a personaggi che raccontano in modo più o meno divertente le cose che gli capitano nella vita di tutti i giorni (+ o – perché sono convinto che anche l’umorismo contenga in sé riferimenti generazionali). Si tratta di idee, commenti, osservazioni, confessioni, stati d’animo, umori, sentimenti e via dicendo. L’unicità e univocità dello strumento digitale, le caratteristica così peculiari del video sharing assecondano la totale coincidenza tra la persona e il format. Anzi, il format è la persona. Non esiste design narrativo, non c’è lo sviluppo di un soggetto fino ad avere un trattamento, non c’è uno sforzo di tipo autoriale. Semmai, la naturalezza dell’approccio, spesso poco intermediato e affidato alla pura capacità di empatia, nasce dalla condizione di nativi digitali (anche se non amo particolarmente questa sigla), cresciuti nell’uso esibito, disinvolto, pervasivo e individualizzato dei media digitali. Sia chiaro, sempre più nel paradosso del sistema “social”, in cui tutti si svelano in uno spazio privato pur sapendo perfettamente che è pubblico.

Dal punto di vista tecnico, quindi, i contenuti sono appuntamenti ripetuti, pillole video scadenzate nell’attesa di un pubblico che si affeziona e si lega emotivamente al proprio mentore. Una sorta di gurologia mescolata alla sintassi dei talent che trova nella difficoltà del momento storico il suo nutrimento (alla fine del anni Settanta c’era il No Future dei Sex Pistols, laddove questa generazione convive con il fantasma del fallimento del successo. Unica differenza: i video delle canzoni dei SP su YouTube arrivano a stento a 230mila viewer). La tipologia di consumo di questi prodotti dichiara una certa ritualità, un’abitudine consolatoria che, come abbiamo detto, va vista interamente nello spazio-tempo di una generazione che sta trovando in questo mezzo la gran cassa culturale (prima che mediatica) di un bisogno di attenzione e dialogo.

Neo marketing digitale: il caso Grapevine

Ma questo, come abbiamo sempre detto, non è l’unico fenomeno. Se guardiamo il marketing, scopriamo strumenti evoluti per aziende che guardano ai creators digitali: c’è Grapevine, piattaforma che permette ai brand di coinvolgere alcuni dei più interessanti youtuber in circolazione. Il meccanismo è piuttosto semplice. Un’azienda sceglie che campagna impostare e, dopo aver indicato un budget e aver pubblicato un brief, attende le proposte della community, dai quali ottiene servizi di promozione o visibilità dietro compenso. Ho parlato con Megan Knisely del team per aver maggiori dettagli. Grapevine conta 48mila creators per un raggio d’azione di 420 milioni di visualizzazioni su Youtube e circa 40 milioni su Instagram. Dato che parliamo di aziende, i loro input sono fondamentali. Sono loro a decidere che taglio dare alla campagna e che obiettivo deve avere. Possono avere bisogno di visibilità, di un’azione commerciale o di fidelizzare i propri utenti con delle iscrizioni. Possono selezionare il tipo di servizio che cercano. Dai video sugli acquisti ai tutorial, dai promotional alle video recensioni, dai video curatoriali alle formule tipiche dell’intrattenimento (come una sorta di free style orientato al contenuto commerciale). Inutile dire che Grapevine non è il solo progetto di questo tipo, ma ci serve per introdurre un elemento chiave del neo marketing digitale. Anche se la maggior parte di queste agenzie è posizionata sullo specifico settore dell’influencing, va ricordato che questo segmento presenta criticità molto complesse e di difficile risoluzione. Come dicevamo poco sopra, l’influencer è prima di tutto un personaggio che ha costruito la sua forza mediatica sull’empatia e sull’identificazione e, in mancanza di un progetto di format, il rischio è che possa prevalere quella connotazione generazionale che esclude l’interesse di alcune aziende e focalizza il messaggio su pubblici ristretti. Fuori dal raggio di influenza post-adolescenziale o, comunque, giovanile, il background di un’audience “generica” richiede trame più complesse e complete, e non solo per questioni di status culturale, ma per semplice capitalizzazione dell’esperienza di vita. In questo senso, la capacità di sostenere produzioni elaborate e realizzare prodotti di comunicazione più vicini all’immaginario mainstream (soprattutto di tipo televisivo), più maturi, diventa il valore aggiunto da giocare sul mercato.

È evidente che la progettazione di format del genere si leghi alla capacità di story editing. Dall’idea allo sviluppo delle puntate, il trattamento deve contenere la corretta simmetria di qualsiasi altra struttura narrativa. Un incipit che presenti i personaggi, lo scopo della narrazione, le criticità da risolvere, le soluzioni possibili, l’epilogo finale. Per riuscire a trattenere gli utenti, a interessarli al punto da restare connessi nello spacchettamento e distribuzione multicanale di un prodotto di fiction, è necessario ragionare sull’originalità del contenuto, facendo in modo che i valori di un’azienda siano espressi per affinità, familiarità, sintonia, e mai in modo troppo diretto. I messaggi, i riferimenti sono invisibili, impalpabili, e rimandano alle attività e agli obiettivi dell’azienda solo per connessioni subliminali.

Elica nel 2015 lancia 4 episodi dal titolo Loft Story, che vedono come protagonista lo chef e conduttore televisivo toscano Simone Rugiati, impegnato nella ricerca della giusta ispirazione per allestire una location esclusiva, sede di un grande evento culinario internazionale. Nei diversi episodi un team di fedeli e divertenti amici, tra gag e buona cucina, lo aiuteranno, mentre i consigli del grande designer internazionale Karim Rashid lo sosterranno e ispireranno nel delicato compito di allestimento. L’idea è intelligente. Trasferisce l’azione dell’allestimento della cucina – di cui i prodotti di Elica sono una parte – in un racconto alla moda di un’abitudine sociale: la convivialità festaiola che diventa un progetto estetico e di spettacolo, come nel caso dello showcooking (di per sé, un insight).

In conclusione…

Questi sono solo alcuni esempi, ma è quanto basta per ispirarci delle conclusioni. La prima è che il brand entertainment è un settore forte, popolato da format molto vari, spesso caratterizzati da processi progettuali e produttivi distanti l’uno dall’altro. La seconda, forse più importante, è che si comincia a ragionare su livelli diversi dalla convenienza diretta di un’azienda a investire o meno su un’azione promozionale. La finalità, quella di intercettare un pubblico, non è più misurabile scientificamente; piuttosto, la formazione del gusto dell’utente medio passa da modelli socio-culturali e di intrattenimento che suggeriscono alle aziende quale contenuto fare proprio, per poi veicolare se stesse nel modo più sofisticato e prudente. Ultima considerazione è che, anche se chiaramente esiste ancora una geografia dei target e dei linguaggi generazionali, l’approccio alla trasversalità e il coraggio creativo di un’azienda nel raccontarsi dipendono dal grado di sensibilità e di interconnessione del proprio immaginario al mondo attorno. Questa attitudine, che chiameremo capacità di visione, è trans-generazionale (la perfetta metafora è la stazione della Texaco nel centro di Hill Valley nella saga di Ritorno al Futuro, I e II episodio, che viene mostrata nel 1995, nel 1985 e nel 2015). Una forte identità non ha bisogno di manipolare o alterare troppo la propria immagine.

Per questo, a mio modo di vedere, sta diventando di fondamentale importanza tornare a guardare alla preparazione culturale e tecnica dei produttori di storie, molto oltre, molto dopo i fenomeni più spontanei che riempiono le fasi culturali con momentanee rivoluzioni. Tornare al professionismo della cultura. Questo sono le storie.

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Laureato in Lettere Moderne, specializzato in management della cultura e progettazione europea, collabora con università, enti pubblici e imprese nel settore dell'innovazione e sviluppo sostenibile. Ricercatore e manager attento al cambiamento del mondo contemporaneo ha maturato competenze in diversi settori, dalle scienze sociali alla digital economy. È il fondatore della rete The Next Stop dedicata all'incontro tra il management culturale e l'innovazione, è fondatore di Lateral Training think tank dedicato alla consulenza sui temi del business coaching, corporate storytelling e marketing digitale. È trainer e formatore professionista, sia nell'ambito comportamentale che in quello del design di nuovi processi organizzativi. È presidente dell'Associazione Italiana Sharing Economy e Direttore Scientifico del primo festival di settore, il Ferrara Sharing Festival. È in via di pubblicazione il libro per Franco Angeli Corporate Story Design, manuale per la progettazione e gestione di storie d'impresa. È web designer e senior content marketer per passione, curiosità, professione. Ama leggere, scrivere, vedere film in quantità industriale e occuparsi di nuove tendenze e linguaggi dell'ambiente digitale. Non disdegna gli studi sulla gamefication e il game design. Ha fondato diverse riviste, Event Mag, Limemagazine, The Circle (ancora in pubblicazione). Dal punto di vista tecnico è certificato come: esperto di epublishing Amazon Kindle, esperto di newsstand application design Apple-iTunes store ed esperto di sistemi WooCommerce per wordpress.

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