Le sfide di Diego Piacentini dall’agile development all’adaptive governance

Diego Piacentini, il supermanager di Amazon in aspettativa, ha lanciato il suo nuovo Team per la Trasformazione Digitale alla Presidenza del Consiglio. Dovrà occuparsi del problema perpetuo e apparentemente irrisolvibile di rendere i servizi pubblici efficaci, efficienti e utili ai cittadini.

Per ora, si tratta di un sito e un post su Medium diretto e concreto, con una serie di posizioni aperte, di cui alcune apparentemente già assegnate, e un interessante decalogo sui principi tecnologici e operativi che il team vuole seguire.

Piacentini nei giorni scorsi ha iniziato le sue attività di Commissario Straordinario del Governo incontrando il centro di competenza nazionale sulle politiche per l’innovazione digitale, cioè l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) e altre società in house tecnologiche come Lombardia Informatica.

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Tra gli addetti ai lavori, l’annuncio ha raccolto un ampio menù di reazioni: entusiastiche speranze di cambiamento, prudenti valutazioni critiche e più di un sospetto legato al possibile conflitto di interessi, a cui Piacentini ha risposto preventivamente in una intervista a Repubblica pubblicata lo stesso giorno del lancio del nuovo team.

L’aspetto più interessante riguarda però l’incontro tra il manager che viene dall’America e il mondo pazzamente complesso ed elefantiaco del settore pubblico italiano.

Più che un incontro si profila un vero e proprio scontro culturale. I metodi e i valori della Silicon Valley dovranno fare i conti con una tradizione e una macchina amministrativa i cui metodi e valori sono a volte radicalmente opposti.

Cosa può portare il team di Piacentini all’amministrazione italiana? Innanzitutto, competenze tecnologiche allo stato dell’arte, esperienza internazionale ad alto livello, un commitment senza precedenti verso la semplificazione.

Un team di élite, insomma, che propone il metodo e la cultura dell’Agile developmentAll’opposto dei metodi tradizionali basati su fasi sequenziali – in cui lo sviluppatore è pagato sulla base di risultati intermedi e finali prefissati in un contratto – lo sviluppo agile (come ‘agile’ in italiano) crea, testa e migliora il prodotto in modo incrementale e dinamico, adattandosi rapidamente ai cambiamenti. E’ un metodo che nasce negli anni ’80, ai tempi dell’invenzione del cosiddetto scrum e dell’infatuazione mondiale verso i metodi di produzione manifatturiera giapponesi, quando Tacheuchi e Nonaka (qui il loro articolo) immaginano per la prima volta piccoli gruppi di lavoro che affrontano problemi complessi grazie all’auto-organizzazione e fasi parallele. Un metodo poi applicato al software, che diventa rapidamente uno standard di fatto nei moderni team di sviluppo fino a cambiare l’organizzazione stessa delle imprese.

Quando Piacentini parla di agile non pensa quindi solamente a questioni per nerd, ma propone un cambiamento organizzativo e un paradigma culturale, come sottolinea Ines Mergel in un suo recente articolo.

L’idea di per sé non è nuova. Matteo Renzi, convincendo Piacentini a venire in Italia, vuole copiare Obama, che ha già lanciato team di alto livello e ispirati ai principi dell’agile development per dare una scossa alla burocrazia federale.

Un po’ come i Navy Seals dell’esercito americano, l’US Digital Service team (USDS) nasce nel 2014 per salvare l’amministrazione da un caso di cocente fallimento. Negli anni precedenti, il portale healthcare.gov era stato progettato per essere un luogo di incontro tra compagnie assicurative e singoli cittadini in cerca della migliore copertura sanitaria, ma lo sviluppo del sito non ha mai davvero funzionato, nonostante il budget fantasmagorico di 800 milioni di dollari. Un #epicfail del governo federale insomma, ben superiore al nostro portale del turismo Italia.it, che ha buttato all’aria “solo” circa 5 milioni di euro. Nel caso americano, secondo il rapporto del Government Accountability Office, i dirigenti pubblici non sono stati capaci di seguire adeguatamente i fornitori, la gestione del progetto è uscita fuori controllo e ha mostrato tutti i limiti dei metodi tradizionali di outsourcing a fasi sequenziali.  L’amministrazione Obama, impressionata dalle capacità di iniziative private come Code for America di realizzare in tempi rapidissimi servizi migliori di quanto avesse mai fatto il settore pubblico, ha reagito con un’iniezione di competenze dal settore privato nel governo federale.

Il team agile dell’US Digital Service lavora su “progetti prioritari” decisi dal presidente degli Stati Uniti, come ad esempio Vets.gov, il sito per i veterani di guerra, e MyUscis del Dipartimento per l’Immigrazione. Il modello del “digital team” è poi entrato a far parte delle strategie per il governo digitale della Casa Bianca, con un budget stanziato di 106 milioni di dollari per “istituzionalizzare” i team d’élite. Presso la General Services Administration (GSA) – quella, per intenderci, che gestisce il portale del cittadino USA.gov – nasce 18F (il nome viene semplicemente dal fatto di trovarsi tra la 18esima e la F street a Washington DC). Il compito di 18F è “aiutare altre agenzie federali a costruire, comprare e condividere servizi pubblici digitali efficienti e facili da usare”.

Gli Stati Uniti, cioè, hanno l’idea di “scalare” il progetto iniziale del team dell’US Digital Service lanciando altrettanti team di élite nelle prime 25 agenzie federali come l’esercito americano, l’FBI e il Dipartimento per la Difesa.

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Homepage sito: MyUSCIS

 

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Homepage sito: 18F

In attesa di capire se e quali risultati concreti questa operazione riuscirà a portare negli USA, è ancora più interessante capire se e come potrà essere replicata in Italia.

Il passaggio fondamentale è nell’adattare i sistemi di governance e gestione delle commesse pubbliche ai principi dell’agile management. Parliamo di adaptive governance, cioè della capacità della PA di adattarsi dinamicamente ai rapidi cambiamenti dei bisogni dell’utenza, alla velocità dell’evoluzione tecnologica, alla complessità delle sfide sociali del mondo contemporaneo.  Questa governance “adattativa” è capace di riconoscere e sfruttare gli ecosistemi in cui operano le amministrazioni, i leader politici, le società pubbliche, gli attori del settore privato e le comunità di cittadini, facendo i conti con l’inevitabile complessità e decomponendo problemi complessi in task abbastanza piccoli da poter essere gestiti concretamente (vedi anche questo articolo di Marijn Janssen e Haiko van der Voort).

Chiaramente, Piacentini stesso si rende ben conto della sfida di operare in un contesto profondamente avverso al rischio e al commettere errori. Scrive sul sito della Presidenza del Consiglio: “Troveremo anche molte norme e regole complicate, talvolta incomprensibili; dovremo imparare a gestire con intelligenza la burocrazia. Molti ci diranno: ‘non capite come funziona la pubblica amministrazione’”.

In realtà, nel decreto di nomina si trovano ampi poteri che mostrano concretamente come la PA digitale italiana, e la sua governance bizantina, sia commissariata nel senso stretto del termine.

Piacentini, per esempio, nella sacrosanta e tanto necessaria opera di coordinamento, può obbligare le singole amministrazioni a intraprendere determinate strade o alternativamente sostituire le amministrazioni stesse nella realizzazione delle azioni.

Inoltre, gli strumenti per gestire progetti e commesse in modo più agile già ci sarebbero – nei limiti della legislazione sugli appalti pubblici – anche se ad oggi sono pochi i dirigenti disposti a mettere la firma su procedure più rischiose rispetto ai metodi tradizionali.

Non possiamo però dare per assunto che la macchina pubblica sia semplicemente “vecchia” o “sbagliata”. Al contrario, è stata progettata per essere “giusta”, cioè per fare scelte trasparenti, accountable, stabili nel tempo, figlie del lungo e tribolato dibattito democratico e del coinvolgimento attivo di tutti gli stakeholders, nonché rappresentative anche delle minoranze.

Ad esempio, chi deciderà sulla progettazione e attuazione dei nuovi servizi che il team di Piacentini vorrà coordinare (o realizzare direttamente)? Essere alla frontiera a livello tecnologico o organizzativo non esime il nuovo gruppo dal confrontarsi con scelte e procedure di istituzioni pubbliche che rappresentano l’intera cittadinanza e non genericamente “l’utenza” dei servizi tecnologici.

Ma si profila anche una seconda importante sfida. Adattare la PA alle nuove metodologie della trasformazione digitale significa non solo attrarre competenze di alto livello ma soprattutto mantenerle nel tempo.  Non mancheranno i dirigenti pubblici che tenteranno di resistere al cambiamento adottando una nota tecnica della pubblica amministrazione, quella di “aspettare il cadavere del nemico sulla riva del fiume”.  Il mandato di Piacentini è a tempo (2 anni). Quanti giovani sviluppatori alla frontiera tecnologica sceglieranno di rimanere a lavorare nella pubblica amministrazione italiana? A fine progetto, quando Piacentini tornerà negli Stati Uniti, in tanti potrebbero voler seguire il loro capo per una carriera remunerativa di alto livello. Le basi gettate fino a quel momento saranno sufficienti per garantire un eventuale ricambio? In che misura il “modello Piacentini” sarà scalabile e replicabile? Quanto sarà invece dipendente dalla figura di Renzi e dalla durata dell’attuale Governo?

La speranza è quindi che il nuovo team di Piacentini non solo realizzi i suoi obiettivi nel breve tempo a disposizione facendo ordine nella pazza governance dell’agenda digitale italiana, ma che riesca anche a creare e mantenere quelle competenze e quella cultura dell’innovazione così necessarie per un’amministrazione pubblica capace di adattarsi al cambiamento.

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