Come curarsi dall’influenza digitale

L’edizione rivisitata di The Story Factor di Annette Simmons risale al 2006. Sarebbe limitativo definire questo saggio un libro sullo storytelling. Già dal sottotitolo, infatti, l’autrice rivela il suo obiettivo: illustrare la capacità delle storie e di chi le racconta di influenzare gli altri. Secrets of Influence from the Art of Storytelling parte con la definizione delle Sei Storie che devi saper raccontare. Non amo particolarmente le ricette, le sequenze numeriche del successo o gli algoritmi della felicità, ma la Simmons ha il merito di riuscire a suscitare un certo interesse. In particolare, mi ha colpito il paragrafo in cui parla della funzione educativa delle storie e, per dare corpo alle sue argomentazioni, cita una storiella che Platone era solito raccontare ai suoi allievi per descrivere i limiti e i pericoli della democrazia.

In una nave nel mezzo dell’oceano, c’era un capitano grosso e burbero che era piuttosto miope e un po’ sordo. Lui e la sua ciurma seguivano i principi della decisione di maggioranza rispetto alla direzione da prendere e, anche se avevano a disposizione un navigatore assai competente che sapeva interpretare le stelle per orientare il viaggio, dato che costui era poco popolare e piuttosto introverso, nel timore d’essersi persi decisero di seguire il più carismatico, eloquente, persuasivo membro dell’equipaggio. Ignorarono e misero in ridicolo i suggerimenti del navigatore e, ancora persi nel nulla dell’oceano, andarono incontro alla morte in mare.

Non importa, almeno in questa fase dell’articolo, quante e quali possano essere le similitudini tra il racconto di Platone e l’attuale situazione politica italiana. Io personalmente trovo che questo aneddoto sia una perfetta metafora del pericolo di utilizzare la comunicazione come strumento di manipolazione delle menti e, proprio come nel canto delle sirene, l’idea di prestare attenzione al presunto carisma digitale di uno o più personaggi a discapito della qualità e affidabilità dei contenuti è un fatto con il quale ci confrontiamo ormai quotidianamente. Visto che parliamo di influenza/pratica dell’influencing, e che questo tema è diventato molto importante nelle interazioni tra utenti, è utile sottolineare alcuni aspetti. La Simmons, ad esempio, per completare il quadro delle Sei Storie, elenca:

1 – Who I am stories

2 – Why I am here stories

3 – The vision story

4 – Teaching stories – l’aneddoto di Platone ne è un esempio.

5 – Values in action stories

6 – I know what are you thinking stories

Non starò qui a commentare ogni categoria, ma alcuni di questi punti sembrano piuttosto importanti.

Le storie, in taluni casi, sono biglietti da visita. Raccontare se stessi (who I am) ha un valore imprescindibile. Lo svelamento di sé, delle proprie motivazioni, dei propri obiettivi serve a eliminare il sospetto nei propri interlocutori, sviluppa una sorta di complicità che punta alla costruzione di un patto fiduciario. C’è chi racconta e chi crede a ciò che gli viene raccontato perché, prima ancora del messaggio, il collante è la condivisione di uno stato d’animo. L’empatia. Bene, appuntiamola da qualche parte. Ci torneremo poi.

Va da sé che raccontare se stessi, l’identità e le esperienze è un tutt’uno con la dichiarazione dei propri scopi, delle proprie motivazioni (why I am here). Anche quando queste ultime siano dirette all’ottenimento di un tornaconto personale, se tutto avviene alla luce del sole fa già parte dell’accordo.

Poi c’è la visione (the vision story). La visione è la coraggiosa anticipazione di una soluzione. Una volta che gli interlocutori si sono realmente persuasi di potersi fidare del proprio narratore, è possibile connetterli mediante una prospettiva che, uscendo dagli schemi, sia in grado di trasformare le frustrazioni nella positiva aspettativa di un futuro migliore.

Abbiamo isolato, quindi, le categorie che ci interessano maggiormente ma ­­–mi chiedo – se tutto scorre in modo così semplicemente coerente e lineare, perché allora le persone continuano a seguire una narrazione anche quando questa si riveli, se non falsa, artefatta (eseguita, costruita ad arte)?

Non voglio esprimere giudizi politici, sia chiaro, il mio articolo ha l’ambizione di offrire un’interpretazione sociologica di un fenomeno, ma è un fatto che molti dei punti che ho sopra descritto farebbero pensare, in via generale, alle strategie di comunicazione del leader dei 5 stelle. Ha un biglietto da visita di un certo peso, racconta la sua storia come fosse un profeta, esplicita chiaramente i suoi obiettivi di rinnovamento del sistema e di liberazione del popolo, non nasconde di avere i suoi interessi nell’idea di non poter più tollerare la mala-politica, propone una visione di democrazia diretta. Questa è la storia ma, come avviene il più delle volte negli spazi interstiziali della comunicazione di massa, le strategie con il tempo perdono di coerenza, rivelano i punti deboli, si fanno più fragili nel non riuscire a trattenere le fughe di coerenza del messaggio e le mille interpretazioni di verità dette e non dette. Facciamo un esempio chiaro:

1

La notizia che, letteralmente si traduce in un le 12 persone che rovineranno il 2017, viene abilmente rielaborata dalla redazione di Beppe Grillo.it in un Beppe Grillo uno dei 12 personaggi più influenti d’Europa

2

Anche se, per correttezza, va riconosciuto al sito di non aver manipolato o oscurato il contenuto dell’articolo apparso su politico.eu che, di fatto, indica il leader del Movimento 5 Stelle come un possibile pericolo per la democrazia, l’aver in qualche modo trasformato il titolo in un proclama a rafforzamento dell’identità e del ruolo politici di Grillo indica una grande esperienza nell’uso dei media digitali. È appunto questo il motivo per cui, parlando di influencing, ho scelto di riferirmi a una personalità che ha fatto di questa tecnica il suo cavallo di battaglia, diventando ben presto una sorta di evangelist del web.

Ma, tornando a noi. Se, come internauti, siamo perfettamente a conoscenza delle eccellenti capacità di manipolazione e di influenza di alcuni personaggi e media, perché crediamo ancora ai loro messaggi?

Il discorso si fa complesso. Il 2 settembre del 2015, sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, muore Aylan Kurdi, bimbo siriano di 3 anni la cui immagine è diventata presto un’icona. Quell’immagine scosse il pianeta, non solo per la crudezza in sé della storia, ma per la perfezione di una posa che ha mosso a compassione le persone con la stessa dirompente prepotenza di un’opera d’arte. Quale altra volta vi è capitato di spiare i sogni d’un bambino che dorme, adagiato delicatamente da un lato nella disarmante fragilità della sua condizione? Quale altra volta avete visto la morte comporsi così, animarsi di una straordinaria dignità fino a toccare le corde più profonde dei sentimenti umani? Eppure, come spesso ci siamo detti, le tragedie non cessano di esistere, la vita riserva momenti di crudezza ogni giorno e, sento di poter dire, è sempre stato così. Kurdi non è stato il primo e non sarà l’ultimo bambino sacrificato dalla storia. Lo storytelling di internet è un discorso interrotto in cui, spesso, le trame si sovrappongono, si sfaldano, tornano per un momento a combaciare al proprio calco, al proprio modello, per poi trasformarsi in qualcosa di nuovo. La struttura della narrazione si dissolve nelle sue singole parti e diventa immagine ripetuta, meme, tormentone, scena decontestualizzata fino a una completa riconfigurazione estetica. È stato così per l’immagine di Aylan Kurdi, integrata in altre immagini, fotografie, disegni, in un gioco infinito di rivisitazioni semantiche e simboliche e nel continuo rimpasto delle tecniche di rappresentazione visiva, dal graphic design all’illustrazione digitale, dal fotomontaggio alla pittura e chi più ne ha più ne metta. Fa riflettere che su Facebook questa tristissima storia sia diventata la pagina di un personaggio pubblico. Di per sé segnala l’impressionante capacità del digitale di imporsi sull’esperienza reale. La sublimazione dell’immagine influenza più della realtà.

Il 21 dicembre del 2016, come rimostranza alla tragica situazione di Aleppo –spaccata tra le forze ribelli che vogliono rovesciare il governo di Assad e le milizie governative sostenute dall’aviazione russa e iraniana – Mert Altintas, poliziotto turco di 22 anni, ha freddato con due colpi di pistola l’Ambasciatore Russo Andrey Karlov durante l’inaugurazione di una mostra fotografica in una galleria di Ankara. Quello che colpisce, ancora una volta, è la prepotenza dell’immagine dell’uccisore, fermato in una posa irreale.

3

Desidero citare il commento della giornalista Gea Scancarello, presso dalla sua bacheca Facebook perché lo trovo calzante:

C’è qualcosa di totalmente straniante per me in questa immagine che da ieri sera satura giornali e web, terribilmente uguale al John Travolta del Saturday Night Fever e invece associata a un assassinio brutale.

Sto sperimentando una specie di cortocircuito cognitivo, e penso che siano i primi effetti del bombardamento di immagini, notizie, parole a cui siamo sottoposti (o ai quali, volontariamente, ci sottoponiamo: ma sulla volontarietà bisognerebbe discutere a lungo).

Sto desiderando settimane in luoghi senza immagini, internet, informazioni; oppure l’overload informativo mi farà secchi i neuroni.

Ora torniamo per un momento all’Empatia. Siamo in una fase che, per quanto possa apparire grottesca, può farci riflettere su questioni di assoluta importanza. Dal mio punto di vista non si tratta solo dell’uso dei media o, come tanti hanno sottolineato, dell’educazione all’uso dei media digitali. Non sono queste le cose che possono difenderci dal subire eccessive influenze rispetto alla costruzione di una nostra libera opinione. Penso, piuttosto, che la rappresentazione della vita – commista di riferimenti presi dal mondo della finzione – ci stia costringendo a una percezione iperrealistrica dell’esistenza, una percezione in cui, se l’immagine non è perfetta nella sua apparente finzione, non sviluppa reale coinvolgimento emotivo. Siamo, cioè, in una fase di sfiducia emotiva e disorientamento, a un livello tale che percepiamo il dolore e la violenza solo se formalmente corretti nella comunicazione, spesso artefatta, della verità. Forse è per questo che siamo disposti a credere alle manipolazioni, perché rappresentano una sorta di viatico alla cura della frustrazione e del malessere di cui soffre, ormai, l’uomo contemporaneo, irrimediabilmente costretto a vivere in una dimensione pubblicitaria di se stesso.

Non è un caso che, di questi tempi, la rete sia popolata soprattutto di commenti negativi, sfoghi, rabbie, risentimenti, paure. Vivere l’esistenza solo come traduzione finzionale in una dimensione di virtualità non è esattamente come vivere semplicemente la dimensione reale dell’esistenza. E non ha la stessa durata dell’immersione in un film, perché non finisce in un’ora e mezzo, ma continua nella misura dell’iperconnessione continua dei nostri tempi, con device e strumenti e piattaforme che ci tengono collegati senza sosta. Il sistema pervasivo dell’informazione, al di là del proposito di riuscire a influenzare il prossimo, non ammette la libertà critica dell’utente che, stordito, subisce delle immagini senza poter davvero reagire, neppure emotivamente. Prendiamo lo spot dell’Adidas, girato dal regista moldavo Eugene Merher, e che ha fatto irrigidire la nota azienda di attrezzature sportive. Piuttosto che esaltare l’intelligenza di un video che parla al cuore e che tocca uno dei problemi più toccanti, quello della solitudine della vecchiaia, il brand non si è espresso.

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Eppure, nell’ultima fuga di quell’ex atleta costretto in una casa di riposo, c’è il senso di tantissime vite e questo andrebbe capito. Come direbbe Annette Simmons, diventano importanti le Values in action stories, storie che parlano di valori che cambiano, valori che prendono forma in un racconto in cui sia possibile identificarsi. Storie che raccontano di noi, noi che rischiamo di non vivere più oltre l’immagine rappresentata di noi stessi. E, si sa, le vite non vissute portano dei rischi:

Ogni vita non vissuta accumula rancore verso di noi, dentro di noi: moltiplica le presenze ostili. Così diventiamo spietati con noi stessi e con gli altri. Intorno a noi non vediamo che lotta, cediamo e soccombiamo alle perfide lusinghe dell’invidia. Si dice bene che l’invidia accechi il nostro sguardo è saturo delle vite degli altri, noi scompariamo dal nostro orizzonte. La vita che è stata perduta, all’ultimo, mi si rivolterà contro.

Bello, vero. Ma non è mio, l’ha scritto Carl Gustav Jung e, sarà, di lui io mi fido.

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Laureato in Lettere Moderne, specializzato in management della cultura e progettazione europea, collabora con università, enti pubblici e imprese nel settore dell'innovazione e sviluppo sostenibile. Ricercatore e manager attento al cambiamento del mondo contemporaneo ha maturato competenze in diversi settori, dalle scienze sociali alla digital economy. È il fondatore della rete The Next Stop dedicata all'incontro tra il management culturale e l'innovazione, è fondatore di Lateral Training think tank dedicato alla consulenza sui temi del business coaching, corporate storytelling e marketing digitale. È trainer e formatore professionista, sia nell'ambito comportamentale che in quello del design di nuovi processi organizzativi. È presidente dell'Associazione Italiana Sharing Economy e Direttore Scientifico del primo festival di settore, il Ferrara Sharing Festival. È in via di pubblicazione il libro per Franco Angeli Corporate Story Design, manuale per la progettazione e gestione di storie d'impresa. È web designer e senior content marketer per passione, curiosità, professione. Ama leggere, scrivere, vedere film in quantità industriale e occuparsi di nuove tendenze e linguaggi dell'ambiente digitale. Non disdegna gli studi sulla gamefication e il game design. Ha fondato diverse riviste, Event Mag, Limemagazine, The Circle (ancora in pubblicazione). Dal punto di vista tecnico è certificato come: esperto di epublishing Amazon Kindle, esperto di newsstand application design Apple-iTunes store ed esperto di sistemi WooCommerce per wordpress.

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