10 modi per ostacolare l’Open Data

Non c’è programma digitale europeo, nazionale o locale, dalla grande città all’aspirante smart town, senza ampio spazio per i dati aperti: open data by default, dati pubblici come bene comune e risorsa preziosa, sostegno all’apertura dei dati in quanto fattore di crescita economica e via crescendo, con cieca fiducia nelle magnifiche sorti e progressive della crescita digitale.

Ma chi lavora con Open Data può incappare in resistenze e difficoltà non dichiarate, tante, troppe, ricorrenti, spesso paradossali e apparentemente frutto di casualità e inconsapevolezza.

1) Febbre da evento o “per un dataset in più”

C’è il convegno, lo Smart Day, il Data night; c’è il sindaco , l’assessore, il ministero, facciamo vedere la nostra vetrinetta dell’Open Data: 10,100,1000 dataset, uno più del nostro vicino. Non importa quali dati, se e come li aggiorneremo, se la pubblicazione tra un anno sarà sempre attiva. Carpe diem.

2) Obbligo senza responsabilità o “Vorrei pubblicare i dati ma nessuno me li rilascia”

Le linee guida incoraggiano un’organizzazione a sostegno della pubblicazione e, con apparente buona volontà, le Pubbliche Amministrazioni si adeguano. Scelgono uno, ma a volte anche due, tre referenti Open Data, oppure perché no, uno per argomento, dipartimento e via complicando, e li investono dell’onere della pubblicazione. Il piccolo dettaglio che sfugge spesso è che non viene attribuita nessuna responsabilità, obbligo esplicito o premialità a chi detiene i dati. Rilasciare i dati non è mai prassi, se avviene è per buona volontà e senso civico del singolo.

3) Benaltrismo o “Sì ma vuoi mettere le App?”

Il sindaco vuole le App perché anche sua zia le usa, magari c’è pure il nipote che con i suoi amici le programma. Di Open Data non vuol sentir parlare, ci vuole ben altro. E se per caso i servizi per usare i dati ci sono già, magari anche qualche App di esempio ?E non sarebbe poi il ruolo del mercato fare i servizi con i dati? Macchè: le vere App sono ben altre, un qualsiasi privato può realizzarle (ma forse non un privato qualsiasi).

4) Fare rete sì, ma con chi?

Il mantra dell’Open Gov/Open Data recita di porsi in ascolto della società. Associazioni, università, scuole, aziende, comunità: è da lì che deve venire la richiesta di dati e per loro si pubblica. Fare rete è presto detto e poco praticato. E se poi i dati li chiedono davvero? E soprattutto quale associazione, istituto di ricerca, associazione di impresa coinvolgere? Tutti hanno uno sponsor politico e gli equilibri sono delicati. E poi l’anno prossimo forse ci sono le elezioni oppure ci sono appena state, in ogni caso meglio aspettare.

5) “Open Data nessuno li usa” o dell’Open Data Loop

Nessuno usa i dati perché sono vecchi, incompleti, poco utili. Vai al punto 6)

6) “Open Data sono vecchi, incompleti, poco utili” o dell’Open Data Loop

Sì ma tanto nessuno li conosce. Vai al punto 7)

7) “Open Data nessuno li conosce” o dell’Open Data Loop

Non vale la pena farli conoscere, tanto nessuno li usa – tornare al punto 5)

8) Open Data roba vecchia o dei Trend tecnologici

Ci sono politiche come quelle per l’apertura dei dati che andrebbero sostenute, misurate e regolate per un arco di almeno 5-10 anni. Ma come si fa se quel diavolo di Gartner ogni anno ci cambia i Trend e quello che 3 anni fa era un must ora fa sbadigliare? Basta con Open Data, mettiamoci almeno un po’ di Big/Smart/Small Data che fa un filino più cool.

9) Open Data? Mai!

Dopo alcuni incontri in cui pazientemente viene spiegato perché occorre rilasciare i dati, le problematiche di privacy e titolarità, la metadatazione, etc., si arriva finalmente a guardare il contenuto del database. Ma quando diventa chiaro che non si chiede una statistica sommaria ma proprio il dato più di dettaglio, allora un lampo di luce squarcia le tenebre: “Volete dire che chiunque potrebbe poi fare le stesse elaborazioni e controllare il mio lavoro (o fare il lavoro al mio posto e magari meglio di me)? Mai! I dati non usciranno mai”. Alla faccia dell’Open Data by default. Illuminante.

10) L’Open Paranoia

Supponiamo di proporre la pubblicazione in Open Data di dati che magari sono già nel portale di un Ente, esposti e dimenticati senza specifica di alcuna licenza d’uso o cura nel formato o documentazione a corredo. Pubblici sì ma aperti no, almeno non per il momento. La possibilità che davvero chiunque, con tanto di licenza, possa farne l’uso che vuole suscita mille sospetti: “e se un cittadino scopre un errore” (come se non potesse già farlo)? “E se ci chiedono conto di un testo che nessuno ricorda chi ha composto”?

E’ l’ostacolo che, quando è sincero e spesso lo è, quasi commuove per la sua purezza: in fondo chi la formula magari ha davvero timore, ha cercato di capire e ha qualche dubbio, in qualche caso lecito, che magari per pigrizia, o perché non è davvero tenuto a farlo (vedere punto 2), rimanda di sciogliere.

Quindi attenzione, se lavori con l’Open Data e cominci a sentire troppo spesso uno o più di questi 10 argomenti potrebbe trattarsi di semplice casualità o scarsa consapevolezza. O forse di una volontà perversa nascosta tra le pieghe della burocrazia. L’italia arretra per il suo ritardo digitale ma è anche vero che il ritardo digitale copre ottimamente il clientelismo, l’inefficienza, la cattiva politica.

Tutto ciò che è Open (dati, software, conoscenza), tutto ciò che altrove è un semplice criterio di buon senso e buona amministrazione, in Italia può costituire una minaccia. Non solo in Italia se se centinaia di ricercatori stanno facendo backup dei dati ambientali e metereologici per timore che Trump possa rimuoverli. Allora riuscire a pubblicare o aggiornare un dato è un piccolo, grande atto di civismo e chi all’interno degli Enti Pubblici pratica e sostiene l’Openness, aggirando con fantasia e coraggio gli ostacoli, fa qualcosa a suo modo di eroico e con un significato, profondamente politico, di difesa dell’interesse collettivo.

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