Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze è l’obiettivo numero 5 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. In particolare l’obiettivo 5.2 intende “Eliminare ogni forma di violenza contro tutte le donne, bambine e ragazze nella sfera pubblica e privata, incluso il traffico a fini di prostituzione, lo sfruttamento sessuale e altri tipi di sfruttamento”.
Secondo il rapporto del gennaio 2017 sul posizionamento dell’Italia rispetto a questo obiettivo, siamo ancora piuttosto lontani dal raggiungimento, e anzi si dichiara che “[..] il fenomeno della violenza sulle donne risulta essere, in Italia, grave e diffuso”, in questo caso i dati fanno riferimento a violenza fisica e sessuale, mentre nella descrizione degli obiettivi ONU si parla anche di violenza psicologica.
L’Agenzia Europea per l’Uguaglianza di Genere ha pubblicato nel novembre 2017 il Gender Equality Index 2017, dove per la prima volta trova posto anche un indicatore specifico relativo alla violenza, considerato a ragione un ostacolo al raggiungimento della parità: l’Italia, con un valore di 26,8 si colloca appena al di sotto della media Europea che è di 27,5 su 100, dove 0 è assenza di violenza e 100 la situazione peggiore.
L’indicatore fa riferimento a tre parametri che sono la prevalenza, la gravità e la non-divulgazione di violenza contro le donne. I punteggi nazionali variano da 22,1 in Polonia a 44,2 in Bulgaria. Il punteggio più alto in Bulgaria è soprattutto a causa del tasso di non-divulgazione di violenza, che è più di tre volte superiore alla media UE (rispettivamente 48,6 e 14,3).
Misurare la non-divulgazione della violenza contro le donne è l’aspetto forse più innovativo di questa indagine: infatti il 15% degli europei considera la violenza domestica una faccenda privata. Si tratta di un cambiamento culturale che è esploso con la campagna #MeToo sui social media. A beneficio di chi avesse trascorso le ultime settimane su di un’isola deserta, spieghiamo che la campagna nasce dalla denuncia di alcune attrici, tra cui Asia Argento, di aver subito violenza sessuale dal produttore cinematografico Harvey Weinstein.
Come spesso accade in questi casi, le vittime della violenza sono state ulteriormente criticate per non aver denunciato subito quello che era loro successo ma di aver aspettato anni. L’invito di altre attrici a denunciare pubblicamente sui social di aver subito violenza usando l’hashtag #MeToo che significa “anch’io”, ha dimostrato quanto sia diffuso il fenomeno della mancata denuncia da parte delle donne di tutto il mondo.
Secondo Wikipedia, l’hashtag è stato usato in 85 Paesi, a volte tradotto come in Italia dove è diventato #Quellavoltache – ed è stato usato in 12 milioni di post su Facebook: è stato calcolato che il 45% degli utenti statunitensi avevamo almeno un contatto che aveva postato con #MeToo.
La campagna ha innescato quello che è stato definito l’effetto Weinstein, cioè accuse di molestie contro celebrità che provocano poi risposte ufficiali da parte delle aziende o degli enti a cui appartengono: uomini politici, giornalisti e molte personalità dello spettacolo, negli Stati Uniti e Canada e anche in Europa sono stati costretti alle dimissioni.
L’uso dei social media, in questo caso, ha permesso a molte donne di trovare il coraggio di raccontare episodi di violenza sessuale, fisica e psicologica che avevano subito: purtroppo in molti altri casi è proprio attraverso i social che la violenza prende forma.
La ricerca condotta da Ipsos Mori per Amnesty International sulla violenza attraverso i social media ha coinvolto 4.000 donne di età compresa tra i 18 e i 55 anni in Danimarca, Italia, Nuova Zelanda, Polonia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Stati Uniti d’America. Circa un quarto delle donne che hanno risposto al questionario ha subito molestie e minacce almeno una volta online.
In Italia il 33% delle intervistate ha dichiarato di ricevere minacce online ogni giorno. Chi subisce queste molestie ha avuto ripercussioni sul proprio benessere con difficoltà a prendere sonno, calo dell’autostima ma soprattutto ha cambiato modo di usare i social media.
Se si legge il tenore di certi commenti, dove si arriva alle minacce di stupro, morte e aggressione fisica non si fa fatica a credere che non ci si possa sentire terrorizzati. Anita Sarkeesian subisce attacchi e minacce da 5 anni, per aver voluto denunciare il sessismo nei video giochi. Ha dovuto cancellare partecipazioni a conferenze per non mettere in pericolo anche l’incolumità di chi avrebbe partecipato: per questo si sente anche “confinata” nel ruolo della donna sopravvissuta alle minacce online, piuttosto che per le sue attività di ricerca sui media.
Per le donne si riduce così la libertà di espressione e altri diritti che comprendono anche il diritto all’informazione, la privacy, la partecipazione democratica, la partecipazione alla cultura, la lingua, la creatività, l’educazione, l’assemblea pacifica e l’autodeterminazione
I gestori delle piattaforme e i governi fanno abbastanza? Secondo Sarkeesian, il loro intervento ha lo stesso effetto di un cerotto su una casa che va a fuoco e auspica nuove piattaforme progettate per essere intrinsecamente anti molestia.
Nel frattempo si potrebbe ripescare l’idea di un progetto di qualche anno fa, che al grido di “riprendiamoci la tecnologia” proponeva di dare un voto ai diversi social tenendo in conto parametri come “Approccio verso la violenza alle donne”, “Ascolto degli utenti”, “Facilità di segnalazione abusi”, “Attenzione alle donne non europee o statunitensi”…
La violenza sulle donne è un fenomeno “grave e diffuso” non solo in Italia: la bellissima infografica multimediale realizzata dalle Nazioni Unite merita davvero una visita e magari già che ci siete provate a fare anche a misurare la vostra conoscenza del problema, potreste scoprire che la situazione è molto peggio di quanto pensate.
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