A partire dal modo in cui viene comunicato, è possibile capire molto rispetto al reale impegno delle aziende nella direzione della sostenibilità. È però altrettanto chiaro che, nonostante il suo ruolo – centrale nelle strategie delle aziende – la comunicazione di per sé non basti se non sostenuta da azioni concrete: ad un attento sguardo esterno, infatti, il filo che intercorre tra operazioni di facciata – il cosiddetto greenwashing – ed un effettivo interesse nel fornire benefici tangibili alla società, è labilissimo. Ne è convinto Furio Garbagnati, CEO di Weber Shandwick.
In ogni caso, come spiegato da Stefano Epifani tra le pagine di Sostenibilità Digitale, quali che siano le reali intenzioni delle aziende, tra greenwashing ed impegno concreto, siamo di fronte ad una vera svolta rispetto al ruolo della sostenibilità nelle priorità strategiche. “Se tale svolta – vera o presunta che sia – è sintomo di una maggiore attenzione verso questo tema, ciò vuol dire che il percorso di cambiamento è comunque avviato. Un po’ quello che è successo, nella prima metà del 2019, con il ‘fenomeno’ Greta Thunberg. Le critiche all’attivista svedese si sono polarizzate dividendo il mondo in due: i fan e gli hater. […] Il punto che pochi commentatori hanno sottolineato, è che – indipendentemente da quello che si pensi della giovane ambientalista di Stoccolma – il ‘fenomeno’ Greta Thunberg ha dimostrato che, oggi, esiste una coscienza ambientale nei giovani tale per cui i temi che essa ha trattato, riscuotono interesse e attenzione”.
Ed è proprio in virtù di questa considerazione che il tema resta molto complesso: quanto di ciò che le aziende fanno – e dicono – è frutto di un reale impegno nella direzione della sostenibilità? E quanto, invece, è una “necessità” dovuta all’aumentata sensibilità rispetto al tema da parte della società? Furio Garbagnati, lavorando a stretto contatto con alcuni degli attori maggiormente impegnati su questo fronte, può essere certamente considerato un osservatore privilegiato.
La sostenibilità non è solo ambiente
“Non esiste oggi un manager che non parli di sostenibilità, quindi direi che nell’ambito del management la consapevolezza dell’importanza del tema è molto diffusa. Non so in che misura questa si possa considerare un’attenzione ‘di facciata’ oppure un qualcosa di effettivamente approfondito ed interiorizzato”.
Esordisce così Furio Garbagnati, rimarcando come per il fatto stesso che la sostenibilità sia diventata un concetto ormai “di moda”, e che la soglia d’attenzione nei suoi confronti da parte degli individui si sia nettamente alzata, resti difficile comprendere quanto dell’interesse mostrato da parte delle aziende superi l’approccio di facciata ed impatti realmente sulla dimensione di business.
Quello che però è evidente, è che il primo collegamento mentale con la parola sostenibilità è quello con l’ambiente, soprattutto “a causa” di una lunga tradizione storica che ha contribuito a sedimentare questa visione. “Considerare la sostenibilità solo legata all’ambiente è un errore gravissimo. Questo è particolarmente evidente andando ad osservare il modello dello stakeholder capitalism, rispetto al quale non si può parlare di sostenibilità senza mettere in stretta relazione le tre dimensioni di ambiente, società ed economia, con l’obiettivo di generare benefici di cui l’intera società possa godere”.
Ma se dal punto di vista teorico, per il CEO di Weber Shandwick, sembra esserci una coscienza diffusa sull’importanza di ridefinire i modelli di business in un’ottica più sostenibile, dal punto di vista reale c’è ancora molto greenwashing. Ma non solo: “oggi siamo vittime di un’altrettanta insidiosa forma di lavaggio delle coscienze aziendali basata sul digitale: un vero e proprio digitalwashing”. Ce ne aveva parlato Carlo Bozzoli di Enel, nella sua intervista per Sustainability Talk: “spalmare” le tecnologie digitali sui processi aziendali esistenti, senza però fare in modo che queste possano ridisegnarne il funzionamento in ottica, appunto, digitale e sostenibile.
Il digitale come essenza del cambiamento
Il digitale e l’innovazione tecnologica sono sempre più in grado di abilitare trasformazioni profonde per le aziende, non sfruttare il loro potenziale nella direzione della sostenibilità significa non riconoscerne il pieno potenziale. “Spesso la tecnologia viene ancora erroneamente vista come un semplice strumento. Quello che manca è una visione d’insieme, per capire come questa non sia solo un ‘tool’, quanto piuttosto un ‘aggregatore’, in grado appunto di riunire ed abilitare tutti i vari pezzi di questo grande puzzle che è la sostenibilità”.
La sostenibilità non può fare a meno del digitale, e i due temi sono oggi più che mai profondamente interconnessi tra loro. Ma per capire a fondo quanto l’una sia imprescindibile per l’altro, per il CEO di Weber Shandwick non basta lo sviluppo di competenze specificatamente tecnologiche, seppur necessarie. “Per fare in modo che la tecnologia possa realmente ridefinire i modelli organizzativi in funzione della sostenibilità, le competenze tecnologiche devono essere necessariamente affiancate da competenze più ‘umanistiche’: solo in questo modo si può comprendere il fatto che la tecnologia non è soltanto uno strumento abilitante, quanto più un elemento il quale contributo per la sostenibilità non è discrezionale, ma essenziale. – spiega Furio Garbagnati – Pensiamo, ad esempio, all’economia circolare: nonostante sia alla base dei futuri modelli di sviluppo economici, se non fosse abilitato dall’utilizzo delle tecnologie in una logica ecosistemica, non potrebbe nemmeno esistere”.
Un approccio, diversi benefici: quando investire nella sostenibilità paga nelle relazioni con stakeholders e shareholders
Perché questa visione possa diffondersi all’interno delle aziende, queste ultime devono realizzare tutti gli investimenti utili per fare in modo che quanto detto non resti soltanto in una dimensione concettuale. Non si tratta, però, soltanto di investimenti economici: la sostenibilità, come evidenziato già da Carlo Bozzoli, Raffaele Gareri, Mauro Minenna e Fabio Degli Esposti, deve necessariamente passare per investimenti formativi interni, per far comprendere – a tutti i livelli – quali possano essere i vantaggi nel lungo periodo di un pensare ed un agire sostenibile. Ma perché le aziende possano mettere in pratica questi comportamenti virtuosi devono essere favorite dall’intervento delle istituzioni, il quale ruolo è quello di “guidare, creare le condizioni, dettare le linee guida e laddove è necessario finanziare, in modo che il privato possa poi sviluppare, sul proprio territorio di riferimento, quelle strade che ritiene più adatte alla propria realtà”.
Queste azioni coordinate devono però essere orientate verso un obiettivo comune: porre le basi affinché per le aziende l’agire sostenibile non sia più considerato soltanto una dimensione di facciata, quanto piuttosto una condizione naturale ed essenziale per ogni progetto, per ogni azione messa in campo. E gli impatti, in questa direzione, sarebbero “non soltanto nelle relazioni con gli stakeholders, ad oggi sempre più influenzati dagli aspetti di sostenibilità, ma anche nelle relazioni con gli shareholders: infatti, anche l’andamento borsistico di un titolo è sempre più influenzato dalla percezione di sostenibilità che l’azienda è in grado di trasmettere”.
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