Tutti possono far parte della democrazia linguistico-digitale, ma la democrazia linguistico-digitale non è per tutti

La nostra lingua, di fatto, indica o descrive unicamente delle cose, degli oggetti: per questo, per essere sostenibili in ambito digitale, bisogna avere sempre cura della relazione che si crea attraverso la parola

Un popolo che governasse sempre rettamente non avrebbe bisogno di essere governato. Prendendo il termine nel suo significato rigoroso, non è mai esistita e non esisterà mai una Democrazia. Va contro l’ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata. È inimmaginabile che il popolo rimanga continuamente riunito per badare agli affari pubblici; e si comprende facilmente che non potrebbero essere costituite a tal fine delle commissioni senza che muti la forma

J-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale

 

Squilla il telefono; diamo un’occhiata al display; il numero non è registrato in rubrica. Dopo un po’ d’esitazione decidiamo di rispondere. Qualcuno, dall’altra parte, ci saluta con brio. Ci si rivolge con disinvoltura e confidenza, pur essendo, per noi, uno sconosciuto, e non esita a violare lo spazio intimo: “come stai?” ci chiede. La domanda è sostituita talora da una variante: “come ti trovo?”. Siamo perplessi, ma intuiamo presto che il nostro festoso interlocutore vorrebbe venderci qualcosa. In effetti, ci propone il trading. Il più delle volte, purtroppo, siamo costretti a chiudere in malo modo, essendo il ‘nostro amico’ piuttosto insistente. Ognuno fa del proprio meglio per sbarcare il lunario e guadagnarsi il pane, come si suol dire: nulla da eccepire. Ciò che invece deve essere bruscamente eccepito è l’approccio: le formule che scelgono e che qualche ‘esperto’ – probabilmente, un sedicente esperto – ha insegnato e imposto loro sono buffe e insensate, non fondate sull’esame di realtà e distaccate dal piano della pragmatica linguistica.

Una domanda del genere, “come stai?”, presuppone l’allocutivo della quotidianità, il “tu”. In specie, essa può strutturarsi sul tu delle cose, quelle che condividiamo e che ci sono note. In precedenza, nell’affrontare il tema del corteggiamento via chat (clicca qui per leggere il testo), ci siamo spinti ad affermare che un qualsivoglia corteggiatore occulto che usi questo approccio mostra un linguaggio ‘schizofreniforme’. È un’affermazione un po’ parossistica, ne siamo consapevoli, ma siamo anche convinti che i luoghi digitali siano stati, nel tempo, male interpretati e considerati come accessi liberi all’esistenza altrui; il che ha causato e continua a causare la violazione permanente dell’intimità. Chiedere “come stai?” vuol dire pretendere d’impossessarsi di cose che non ci appartengono: un pasto comune, una passeggiata, un successo o un insuccesso et similia. Lo sconosciuto non ha il diritto di sapere.

Nella teoria degli atti linguistici (AUSTIN, J., 1962, How to do things with words; SEARLE, J., 1962, Speech Acts), è definito rappresentativo (o assertivo) quell’atto in funzione del quale dimostriamo di avere delle conoscenze sul mondo che ci circonda. Se annunciamo o comunichiamo qualcosa, lo facciamo, per l’appunto, sulla base di queste conoscenze. In particolare, se affermiamo che un giovanissimo Alessandro fu in grado di sottomettere la Tracia, scegliamo di condividere una nozione, ovverosia una cosa che abbiamo studiata e conosciamo. La nostra esistenza si riempie continuamente di cose, oggetti; la nostra lingua, di fatto, indica o descrive unicamente delle cose, degli oggetti. Anche quando non ce ne accorgiamo, predichiamo sempre qualcosa intorno a qualcos’altro: l’essenza della comunicazione, in sostanza, è la predicazione, cioè una componente verbale che crea una relazione tra persone e cose o persone e persone intorno alle cose, ai loro oggetti: “Questi spaghetti sono squisiti!”. Il caso del verbo essere è semplice; è vero. Se tuttavia diciamo “squisiti questi spaghetti!”? Se, in pratica, eliminiamo il verbo e ci serviamo di una frase nominale, che cosa succede? Possiamo ancora parlare di predicazione? Sì, certo! Si tratta di una predicazione ellittica, implicita. Il legame tra gli individui viventi e le loro cose è generato proprio dalla predicazione.

Nella frase nominale “bella giornata!” manca il verbo, ma riconosciamo indirettamente e per ellissi il predicato. Ciò che non manca quasi mai è l’oggetto. L’uomo, a meno di votarsi al profetismo, vive tra oggetti e agisce distinguendo oggetti. L’obiezione matura presto: che dire allora della frase filosofica “penso, dunque sono”? Dove sono gli oggetti, le cose? Partendo dal presupposto secondo cui il primo e unico oggetto è costituito dal pensatore stesso e dalle sue relazioni, non possiamo fare a meno di affermare che una frase siffatta non crea relazioni, è oltre la relazione, è metarelazionale. Un esempio eclatante proviene dall’Antico Testamento. Mosè chiede a Dio con imprudenza cosa riferire agli Israeliti. Chi lo manda? Dio non la prende bene, tant’è che lo punisce per la sua esitazione, ma risponde. “Io-Sono. Dirai che ti ha mandato Io-Sono” (Es 3,14). A dire il vero, neppure gli Israeliti accettano di buon grado la risposta. Ciò accade perché l’uomo non è fatto per vivere senza cose, oggetti.

“Il mondo è la totalità dei fatti” scrive Wittgenstein nella proposizione 1.1 del Tractatus, ma il fatto è il sussistere degli stati di cose (2) e lo stato di cose è un nesso di oggetti, entità, cose (2.01). Conoscere l’oggetto – aggiunge – vuol dire conoscere anche tutte le possibilità della sua ricorrenza in stati di cose (2.0123), giacché noi ci facciamo delle immagini dei fatti (2.1).

Gli stati di cose si formano nello sguardo: vedendo conosciamo e riconosciamo oggetti, cose. Il vedere, per i Greci, era l’essenza del sapere. Erano talmente audaci, in materia di significati, da rendere οἶδα (òida), perfetto di ὁράω (horào, io vedo), con io so: so perché ho visto.

Riflettiamo rapidamente su ciò che accade in rete e, in particolare, nel mondo e coi modi dell’advertising: gl’impulsi che ci giungono ci portano sempre al prodotto, al possesso di cose, oggetti. I nostri stessi dati sono oggetti di valore, tanto da essere stati venduti più volte, a dispetto delle norme sulla privacy.

Un abile venditore è colui che crea relazioni tra persone e oggetti, facendone avvertire la necessità improrogabile, l’emergenza.

Le stesse lingue in funzione delle quali tutto questo è possibile sono classificate secondo la relazione tra SOGGETTO, VERBO e OGGETTO. In particolare, la lingua italiana, per tipologia sintattica, ha una base SVO, al pari di tutte le altre lingue romanze, ma anche dell’inglese e delle principali lingue germaniche: “(S ellittico) ho intenzione di leggere (V) quel romanzo (O)”; “(S) I’m going to read (V) that book (O)”. Il latino, invece, si rifà tendenzialmente alla base SOV, pur mantenendo parzialmente lo schema libero: “ego (S) illum librum (O) lecturus sum (V)” (In circostanze del genere, anche il latino ometterebbe il soggetto, che noi invece riportiamo per esigenze didattiche). La differenza tra l’italiano (SVO) e la sua lingua madre (SOV) ci aiuta a comprendere l’importanza dell’oggetto e la pertinenza del discorso fatto finora. Lo spostamento dell’oggetto e il suo nesso con le altre parti del discorso determina la correttezza dell’ordine e della percezione dei significati che ne deriva: da *io ho intenzione quel libro di leggere a io ho intenzione di leggere quel libro.

In ogni caso, facciamo sempre delle cose, vediamo o indichiamo delle cose, pensiamo cose. Come riesaminare, adesso, la frase “come stai?”, dal momento che sembra priva di oggetto? In realtà, non è del tutto priva di oggetto, fuorché in apparenza. Il benessere d’una persona cara passa attraverso cose che possiamo fare o non fare insieme. La paura di non farle è paura di perdere le cose. Se diventa angoscia o panico, perdiamo definitivamente le cose: ci viene a mancare il momento della referenza.

In questo quadro d’indagine, avendo a cuore la sostenibilità digitale e svolgendo un lavoro di ricerca circa la grammatica sostenibile che ne deriva, ci preme interrogarci sulla sorte degli oggetti nella scrittura della rete. Bisogna considerare, infatti, che ormai il ‘lettore digitale’ prevale nettamente su ‘quello cartaceo’; e il dato è più che assodato. Secondo un’indagine Audipress, che si occupa del monitoraggio della lettura dei quotidiani e dei periodici nel nostro paese, dal 2014 al 2020, la carta stampata ha perduto più di cinque milioni di lettori. I redattori di Audipress 2020/III (qui, il report 2020/III) riferiscono che l’aumento dei lettori delle digital edition è pari addirittura al +42,2%; il che ci impone l’incessante revisione dei ‘fatti’ della sostenibilità linguistico-digitale.

A tal fine abbiamo estratto a caso un frammento dagli articoli di alcuni blog italiani. Ne abbiamo valutato punteggiatura, sintassi, livello di predicazione e, da ultimo, ma non per minore importanza, ruolo dell’oggetto. La scelta del pezzo è stata casuale. Gli unici criteri che ci hanno guidati sono stati quello del successo di pubblico e quello del tema della comunicazione. Abbiamo anche tenuto in considerazione, a dire il vero, il principio comunicativo che anima certi blog.

PRIMO FRAMMENTO: “FERPI, insieme alle associazioni internazionali professionali e accademiche di relazioni pubbliche e di comunicazione, ha sottoscritto lo Statement on Communication of Covid-19 Pandemic reclamando una comunicazione responsabile, onesta ed efficace da parte di tutte le organizzazioni.”

Il frammento, come si può intuire, proviene dal sito della Federazione Relazioni Pubbliche Italiana ed è firmato dalla redazione. La punteggiatura del testo è impeccabile; il discorso, in generale, per ordine sintattico e strutture semantiche, è lineare. Fin qui, nulla da contestare. D’altronde, dalla FERPI ci si aspetta proprio questo equilibrio linguistico, trattandosi di un ente di rappresentanza dei professionisti della comunicazione. La nostra attenzione, però, si appunta su tre aggettivi che ci allontanano dall’esame di realtà e dal dominio delle relazioni. Il tema e il focus, di fatto, sono rispettati: rispettivamente, la scelta della Federazione e la sottoscrizione dello statement. La semantica si fa preoccupante nel momento in cui si reclama una comunicazione responsabile, onesta ed efficace, tre aggettivi che, a propria volta, ‘reclamano’ (…ammettendo che un aggettivo possa reclamare qualcosa) di essere disambiguati. Che s’intende per comunicazione responsabile, onesta ed efficace? L’autore ha due possibilità: o ne esplicita il significato immediatamente, con una referenza collocata nello stesso periodo sintattico, oppure deve farlo nel corso dell’articolo mediante un procedimento anaforico, per così dire, cioè con una ripresa che ne spieghi il contenuto. In caso contrario, la sfera semantica o, in altri termini, lemmatica delle voci “responsabile”, “onesta” ed “efficace” è talmente estesa da non concedere al lettore nitida comprensione. Non è di certo un errore grave, ma è sempre fondamentale tenere presente il primato della relazione. Quando, in precedenza, abbiamo parlato dell’uso di “pericoloso” (clicca qui per leggere il testo), abbiamo fatto notare proprio quanto un certo uso, anche infondato, di questo aggettivo, possa essere, per l’appunto, pericoloso – ci si conceda il gioco di parole! È sufficiente che un soggetto influente lo ripeta con metodo perché sulla rete si crei un movimento ai danni di qualcuno o qualcosa. Nel caso della scrittura di FERPI, gli aggettivi sono a-referenziali, possiedono un’area di iperonimia tanto vasta che chiunque può attribuirvi per similarità un qualsivoglia iponimo finendo con l’alterare il senso dei buoni propositi della Federazione. Il valore dell’esempio è troppo spesso trascurato. Di conseguenza, un esempio di comunicazione responsabile, onesta ed efficace avrebbe giovato alla causa. Aggiungiamo una preghiera: il lettore non cerchi, nel nostro scritto, un attacco alla FERPI sia perché la Federazione non lo merita sia perché la qualità del loro lavoro di comunicazione è sicuramente al di sopra della media! Ne abbiamo adottato un contributo unicamente per il prestigio di cui godono. A ogni modo, di seguito, l’intero articolo.

Insomma, dobbiamo essere in grado di dire agli altri ciò che non vedono. Non possiamo limitarci a dire “questo è un bicchiere”. Il bicchiere ha una precisa funzione, che tutti conoscono. Dunque, o non parliamo del bicchiere o ne riveliamo nuove caratteristiche.

Nel concludere l’analisi proposta e allo scopo di fornire un riscontro comparativo, ci occupiamo di un blog meno noto, ma i cui autori puntano a dare consigli in fatto di copywriting. Gli autori di isoladicomunicazione.com scrivono:

“(…) Persuadere significa convincere qualcuno a fare qualcosa risaltando i vantaggi che uno specifico prodotto o servizio possono recare e dicendo sempre e solo la verità!”

Cominciamo col dire che persuadere non significa affatto convincere qualcuno mostrandogli dei vantaggi. L’etimo di persuadere, infatti, non contiene alcun vantaggio ed è fuorviante arricchire in modo arbitrario la semantica sulla base dei propri bisogni perlocutivi. Restiamo d’accordo su “convincere”. L’argomento, comunque, non è etimologico. Quindi, andiamo avanti!

Più oltre, ci dicono che, in poche parole, “la scrittura persuasiva è importante perchè riesce a” (tralasciamo l’accento grave su “perché”: può darsi che sia un refuso, anzi speriamo che lo sia):

  • “attirare inizialmente l’attenzione del lettore (…)”;
  • “aumentare l’interesse del lettore (…)”;
  • “spingere all’azione il cliente (…)”

Quali che siano la spiegazione dei motivi per cui è importante la scrittura persuasiva, questa scrittura non è affatto persuasiva. Il calzolaio con le scarpe rotte: “attirare l’attenzione” e “aumentare l’interesse” sono due variabili quasi sinonimiche che sembrano connotare mancanza di contenuti. A ogni modo, sarebbe opportuno chiarire che cosa possa significare attirare o aumentare l’attenzione e l’interesse del lettore. Ancora una volta, sarebbe sufficiente sfogliare un buon dizionario per capire di essere lontani dalla realtà: “interesse”, “attenzione”, “azione” et cetera sono termini astratti e della cui semantica non possiamo essere partecipi. Dunque, qual è, in questo caso, il valore della predicazione? Che cosa si dice e soprattutto intorno a che cosa? La conseguenza di questa postulazione si ha nel cuore dell’articolo, quando leggiamo

  • “di’ sempre la verità”;
  • “sii coerente”; ma soprattutto:
  • “sii concreto”

L’invito alla concretezza è, a dir poco, clamoroso, un paradosso. L’esortazione della verità, in ogni forma di scrittura, è delirante, non altrimenti che se esistesse un verbo giovanneo da calare nel contesto scrittorio: “In principio era il lògos e il lògos era presso Dio” (Gv 1, 1). Chi ci invita a dire la verità deve darci degli esempi di verità. In quanto alla coerenza, siamo costretti a rinviare il lettore a ciò che abbiamo scritto a proposito della necessità di disambiguare la semantica delle parole (di seguito, il testo di isoladicomunicazione).

Essere sostenibili in ambito digitale vuol dire aver cura della relazione che si crea mediante il principale strumento di comunicazione di cui possiamo servirci: la parola. La grande metamorfosi sociale è avvenuta all’interno della parola e delle sue trame combinatorie. A un certo punto, ciascuno di noi ha avuto la possibilità di dire qualcosa, ma è bene ricordare che, oltre a non essere obbligatorio, il dire qualcosa non può prescindere dalla magistrale lezione saussuriana secondo la quale il segno linguistico è un’immagine acustica. Se partiamo da questo principio e, nello stesso tempo, il nostro linguaggio manca di immagini, allora non esiste più una comunicazione, bensì uno sfogo. Tutti possono far parte della democrazia linguistico-digitale, ma la democrazia linguistico-digitale non è per tutti.

Facebook Comments

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here