Possiamo ipotizzare che la comunicazione sia un simbolo in azione? Il problema dell’abbraccio

In genere, gli atti linguistici sottesi da un codice passano da A a B difilato e, in questo passaggio, non siamo disposti a pensare a dei vuoti da colmare: la sfida del linguaggio, però, sta nel fatto che il segno, quale che ne sia la realizzazione, costituisce sempre un rimando ad altro

Immagine distribuita da Pixabay

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto

Dante Alighieri, Purgatorio

LUI: Forse, hai mandato il messaggio a qualcun altro

LEI: Come puoi pensare che io abbia amore e attenzione per un altro?

In realtà, si può pensare tutto, anche e soprattutto l’impensabile. Se solo avessimo la capacità di pensare l’impensabile, almeno per qualche minuto, ogni giorno, salveremmo la nostra esistenza da errori, fallimenti e miseria intellettuale. Bisognerebbe proprio tentare di costruire, con un minimo di sforzo, la dialettica della contraddizione e, in questo modo, rivolgersi unicamente a sé stessi, anche negando, se necessario, tutto ciò di cui siamo persuasi. L’esempio d’apertura, tuttavia, è la semplice rappresentazione d’un equivoco grossolano, come ce ne sono tanti. Capita d’inviare un messaggio alla persona sbagliata, così da dover correre, in preda all’ansia, per annullarlo o scusarsi col destinatario, nel caso questi ne legga tempestivamente il contenuto. Il piano di comunicazione di LUI è sviluppato esclusivamente sull’ipotesi d’un errore d’invio. Si prega il lettore di prestare attenzione anche al modo in cui è costruito il periodo [“(…) è sviluppato esclusivamente sull’ipotesi d’un errore d’invio”)]: nulla di casuale e ne daremo spiegazione! Il piano di LEI, invece, per quanto inaspettato e un po’ estraneo alla casistica e al codice di scambio delle chat, ci rinvia addirittura all’etica e all’educazione sentimentale. In altri termini, il valore si sposta verso l’alto, per così dire, ma il suo fondamento è nullo, poiché il senso del messaggio di LUI è immediato e non richiede sforzi né, tanto meno, ‘parafrasi’ (figuriamoci!). Diversamente: si è convinti che non ne richieda.

Possiamo affermare che la nostra comunicazione è prevalentemente fisiologica. Il tranello e la sfida del linguaggio, però, stanno esattamente in ciò cui la fisiologia non ci permette di arrivare: la piena comprensione del segno linguistico, la cui natura è costantemente duplice

Ogni nostro enunciato, per elementare che sia, comporta un impegno di combinazione tra significante, significato, referente al fine di ottenere un senso, anche quando la fruizione è rapida. In genere, gli atti linguistici, sottesi da un codice (null’altro se non una convenzione) passano da A a B difilato. In questo passaggio, non siamo disposti – e non potremmo essere neppure preparati a farlo – a pensare a dei vuoti da colmare e, nello stesso tempo, a dei livelli multipli di senso. Possiamo pure affermare, serenamente, che la nostra comunicazione è prevalentemente fisiologica. Siamo congegnati talmente bene da poterci permettere una certa pigrizia. Il tranello e la sfida del linguaggio, però, stanno esattamente in ciò cui la fisiologia non ci permette di arrivare: la piena comprensione del segno linguistico, la cui natura è costantemente duplice. Il segno, in quanto tale, quale che ne sia la realizzazione, costituisce sempre un rimando ad altro, quand’anche la sua funzione e la sua espressione siano limpide e nette.

Prendendo in esame un’ordinaria esclamazione di disappunto, “Così, non va!”, il nostro compito d’analisi potrebbe essere facilitato. È evidente che il parlante (o lo scrivente) non intende indicare un errore di spostamento da una parte all’altra dello spazio, ma, come abbiamo anticipato, vuole esprimere, verosimilmente, disappunto, delusione, insoddisfazione o qualcosa di simile. Nessuno di noi utilizzerebbe i significanti (c-o-s-ì, n-o-n, v-a), cioè la sequenza materiale fonico-acustica, separandoli gli uni dagli altri, allo scopo di ricomporre i singoli significati. In pratica, ci affidiamo inconsapevolmente a una sorta di metafora connaturata nell’atto linguistico, quasi fosse una condizione di sussistenza della comunicazione. Il caso del “così non va!” è intuitivo, ma ciò non deve indurci a credere che lo scambio tra i parlanti sia sempre agevole o a pretendere che i nostri significati siano sempre validi. Se, per esempio, diciamo “ti amo ancora” a qualcuno, dopo averlo lasciato, allora la situazione cambia e si struttura di colpo sull’ambiguità, sullo smarrimento semantico-esistenziale, non perché non si possano amare più persone o vogliamo alludere a una specie di morale implicita delle relazioni d’amore (ne siamo lontani), ma perché qualsiasi forma di dichiarazione, oltre a essere gravata dalla duplicità dei segni e, di conseguenza, dal rinvio ad altro, genera un ulteriore rinvio: al contesto, alle opere o agli oggetti cui si riferisce. Purtroppo, molto di frequente, trascuriamo il fatto che le nostre parole servono, anzitutto, a mantenere in vita la realtà delle relazioni, a far sapere qualcosa all’altro; le parole sono, anche e soprattutto, un legame e un progetto. Il fatto stesso di rivolgersi all’altro è una proiezione di senso per il quale siamo chiamati a colmare continuamente dei vuoti di significazione.

La tesi sostenuta da alcuni e secondo la quale la comunicazione consisterebbe in un passaggio di informazioni è del tutto fuorviante, oltre che priva di fondamento. Se c’è comunicazione, dev’esserci intenzionalità, mentre l’informazione può ‘non avere un’anima’, intendendo per “anima” la componente emotivo-relazionale dello scambio tra parlanti. Come abbiamo documentato in precedenza (abbiamo affrontato il tema in “Il 25% delle donne viene molestato online: le parole degli odiatori” e in “Perché abbiamo bisogno di una grammatica sostenibile”), anche la tabella dell’orario dei treni è informazione, ma ciò non implica relazione. Occorrerebbe smettere di raccontare in giro per il web che la promozione di un prodotto e, più in generale, la diffusione di contenuti sono forme di comunicazione. Nello stesso tempo, sarebbe necessario ricominciare a indagare sui processi dell’intenzionalità e, soprattutto, sullo scarto di significato e senso tra ciò che dice A e ciò che B interpreta o può interpretare. Aggiungiamo un altro problema, che definiamo ludicamente il “problema dell’abbraccio”: se scriviamo a qualcuno, via chat, “un abbraccio”, ma l’abbraccio non è altro che il riempimento d’uno spazio virtuale, allora questa forma di comunicazione è o anticomunicativa o debole e, in parte, ingannevole.

Comunicare deriva dal latino classico commūnĭcāre e significa mettere in comune, rendere partecipe. Questa nota sarebbe già sufficiente a far capire la gravità dell’equivoco in materia. Se riportiamo un paio di occorrenze, che ci giungono da autori illustri, possiamo anche circoscrivere il dominio d’un errore epocale.

 

Quo mortuo, nec ita multo post, in Galliam proficiscitur Quinctius, ibi cum isto Naeuio familiariter uiuit. Annum fere una sunt, cum et de societate multa inter se communicarent et de tota illa ratione atque re Gallicana; neque interea uerbum ullum interposuit Naeuius aut societatem sibi quippiam debere aut priuatim Quinctium debuisse. [Dopo la sua morte, e senza far passare molto tempo, Quinzio si reca in Gallia dove vive in buoni rapporti di amicizia con costui. Passano insieme circa un anno, parlando spesso della loro azienda di Gallia senza che nel frattempo Nevio abbia mai accennato a un qualunque debiro verso di lui, o presente nella società o passato e personale di Quinzio. (CICERONE, Le orazioni, Pro Quinctio, 4, 15, vol. I, a cura di G. Bellardi, 1978. UTET, Torino, pp.128-129)]

 

Il verbo commūnĭcāre è reso addirittura con parlare; la qual cosa esclude di forza che, per esempio, fare un post o un tweet sia, a priori, un modo del comunicare. Può diventarlo, ma  non lo è.

Potremmo citare Frege, Searle, Davidson, Putnam et alii al fine di rendere quasi pittoresco il lavoro su senso e significato, ma, di tanto in tanto, è il caso di resistere alla tentazione di apparire dotti ed eleganti, considerando che basta concentrarsi sull’essenza della ridondanza dei nostri messaggi per comprendere il fenomeno. In termini di sostenibilità digitale, è per lo meno opportuno riportare l’attenzione sulla distanza e la differenza tra il segno e la sua interpretazione, fermo restando che la distanza resterà sempre incolmabile: non irriducibile, ma sicuramente incolmabile. L’incolmabilità, però, costituisce proprio lo stimolo inconscio alla costruzione dei processi dialettici. In rete, superati l’entusiasmo iniziale e gli eccessivi canti di trionfo, si è generata una sorta di quiescenza semantico-relazionale basata su delle categorizzazioni ipertrofiche: dai cantori solitari di verità ai cosiddetti guru che non ricambiano il following ai comuni mortali per postulato, dai ‘sempre saggi’ agli ‘ostentatori del sé’ e così via. Insomma, si dà per scontato che tra di noi agisca un codice, laddove tendiamo ad allontanarci sempre di più.

L’uso che tutti noi facciamo di espressione (significante) e contenuto (significato) è possibile e reale perché esiste un codice di comunione. Se, tuttavia, il codice, per qualche motivo, diventa anche solo instabile, la comunicazione si fa impossibile, mendace o, addirittura, pericolosa

A nostro avviso, non si tiene mai conto della complessità del segno linguistico, di cui, giocoforza, dobbiamo servirci e la cui caratteristica è, anzitutto, quella dell’arbitrarietà, della saussuriana arbitrarietà. Se scriviamo “libro”, dobbiamo sapere che il significante L-I-B-R-O non ha alcun legame manifesto né giustificato col significato di “qualcosa che possiamo leggere” (o “che compriamo per ornare la libreria”). Avrebbe potuto essere O-R-B-I-L. Perché? La questione è stata approfondita dal linguista danese Hjelmslev, il quale descrisse il segno proprio come entità biplanare, distinguendo un’espressione da un contenuto. L’uso che tutti noi facciamo di espressione (significante) e contenuto (significato) è possibile e reale perché esiste un codice di comunione. In poche parole, comprendiamo il disappunto di chi dice “Così, non va!” grazie a una convenzione e una competenza filogenetica. Se, tuttavia, il codice, per qualche motivo, diventa anche solo instabile, la comunicazione si fa impossibile, mendace o, addirittura, pericolosa. Il segno, inoltre, può essere studiato sulla base della doppia articolazione. Riappropriandoci del sostantivo “libro”, sappiamo che, a un primo livello dell’articolazione, si trovano degli elementi dotati di significato, cioè i morfemi, LIBR- e -O, mentre, a un secondo e più profondo livello, quegli elementi che col significato non hanno nulla a che vedere, cioè i fonemi, che non sono portatori di verità, L – I – B – R – O. Di primo acchito, questa nozione sembra non interessare al lettore che vuole occuparsi di grammatica digitale. Nella sostanza, però, la notazione è utilissima perché ci costringe, ancora una volta, a fare i conti sia con la nostra competenza combinatoria sia con il ‘continuo rinvio ad altro’.

Possiamo ipotizzare, a questo punto, che la comunicazione sia, prima di tutto, un simbolo in azione? I presupposti o, meglio, gl’indizi ci sono tutti.

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