Inconscio digitale, bis

Il concetto di inconscio digitale può essere declinato e inteso in modi diversi: proviamo ad analizzarli e a valutare le loro ricadute sul nostro rapporto con il digitale e tra di noi nel digitale

Immagine distribuita da Pixabay

Il dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi – veda- si crede uno ma non è vero: è tanti, signore, tanti, secondo tutte le possibilità d’essere che sono in noi: uno con questo, uno con quello, – diversissimi! E con l’illusione, intanto, d’essere sempre uno per tutti e sempre quest’uno che ci crediamo in ogni nostro atto. Non è vero!

Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore

 

Nel post precedente Inconscio digitale ci siamo domandati se, nel contesto della trasformazione della nostra vita da analogica a onlife (Floridi), anche il nostro inconscio sia divenuto digitale. Abbiamo a tal fine analizzato le caratteristiche dell‘inconscio tradizionale secondo Freud e tracciato le connessioni che intercorrono tra l‘inconscio, il sogno, la creazione poetica e il digitale. Il concetto di inconscio digitale può essere però declinato e inteso in modi diversi. Proviamo ora ad analizzarli e a valutare le loro ricadute sul nostro rapporto con il digitale e tra di noi nel digitale.

Tra i primi a parlare di inconscio digitale è stato il sociologo Derrick De Kerckhove riferendosi con ciò all’insieme enorme dei dati presenti in rete potenzialmente estraibili su ciascuno di noi

Tra i primi a parlare di inconscio digitale è stato, come già ricordato, il sociologo Derrick De Kerckhove riferendosi con ciò all’insieme enorme dei dati presenti in rete potenzialmente estraibili su ciascuno di noi. Partendo dalla convinzione che noi oggi abbiamo un ulteriore spazio da occupare oltre a quello fisico e psichico, quello virtuale, il sociologo canadese collaboratore di Marshall McLuhan ritiene che l’inconscio digitale prenda forma e si sviluppi attraverso le diverse forme di sapere e di informazione che circolano nella rete. Esso costituirebbe l’informazione – e la forma delle associazioni tra le informazioni – alla base dei nostri processi mentali e delle nostre azioni e orienterebbe la definizione stessa della realtà quotidiana di ciascuno di noi e del mondo sociale. A detta di De Kerckhove l’inconscio digitale si caratterizza per la sua portata globale, la straordinaria velocità attraverso la quale consente l’accesso alle informazioni, la possibilità istantanea di raccogliere e far emergere a livello cosciente una considerevole collezione di dati correlati in diverse configurazioni in tempo quasi reale. Secondo il sociologo canadese, autore tra l’altro di Connected Intelligence, la mappa geopolitica del mondo intero è stata cambiata dall’arrivo sulla scena, attraverso la rete, di un nuovo attore sociale: la “massa interattiva”, costituita dalle molteplici connessioni tra individui legati tra loro da relazioni molto più articolate e complesse di quelle che intercorrono tra i singoli che formano una massa anonima. Si tratta di una massa “connettiva”, e non più banalmente “collettiva”. La massa connettiva è costantemente in contatto reciproco in una sorta di dialogo ininterrotto, una conversazione moltiplicata per un tempo infinito. Anche se con la geniale innovazione del terzo spazio virtuale e della massa connettiva qualitativamente diversa da quella collettiva, il sociologo canadese rimane con il suo concetto di inconscio digitale all’interno di una concezione cognitiva dell’inconscio. Si tratta in definitiva di un inconscio che “rappresenta l’informazione – e la forma delle associazioni tra le informazioni – alla base dei nostri processi mentali e delle nostre azioni.” Pur condividendo alcune caratteristiche dell’inconscio descritto la Freud (velocità, mobilità, globalità) l’inconscio digitale di De Kerckhove è sostanzialmente costituito da informazioni e dal loro particolare assemblaggio. Emozioni e sentimenti non vi trovano posto. 

A detta degli autori, “sconosciuto agli utenti che se ne servono, [tale inconscio artificiale] si nutre delle informazioni che gli stessi utenti dei social gli forniscono gratuitamente e inconsapevolmente”

Pure in ambito cognitivo si muove “l’inconscio artificiale” di cui parlano Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà nel loro “Molti inconsci per un cervello, Il Mulino ed. Esso viene da loro così descritto “la mole enorme di informazioni che ci sommerge attraverso gli schermi dei nostri computer ha creato una sorta d’inconscio artificiale, fonte di trappole insidiose per il nostro giudizio“ (Ibidem, pag 4, versione digitale). A detta degli autori, “sconosciuto agli utenti che se ne servono, [tale inconscio artificiale] si nutre delle informazioni che gli stessi utenti dei social gli forniscono gratuitamente e inconsapevolmente.“ Sulla base degli esempi e delle considerazioni degli autori vien da pensare l’inconscio artificiale da loro illustrato sia sostanzialmente il risultato dell’ignoranza degli utenti delle nuove tecnologie fraudolentemente sfruttata dalle grandi piattaforme. Scrivono infatti Legrenzi e Umiltà: “i più ignorano quello che succede in rete riguardo alle informazioni che in modo spontaneo e innocente vengono fornite dagli ignari utilizzatori. Tali informazioni possono essere sfruttate per costruire profili volti a indirizzare gusti, preferenze e opinioni… La prova indiretta di tale ignoranza è costituita dallo sdegno e dalle proteste planetarie di fronte alla scoperta che un colosso come Facebook aveva prima raccolto e poi ceduto ad altri le informazioni per costruire i profili. Mentre nei sondaggi tradizionali l’intervistato è ovviamente consapevole di fornire informazioni sui suoi comportamenti e atteggiamenti, lo sfruttamento dei contenuti dei social avveniva all’insaputa degli utenti” (Ibidem pp. 914-916). Gli autori utilizzano dunque il termine di inconscio artificiale per descrivere l’ignoranza tecnologica, digitale dei più e il più che cosciente abuso della stessa da parte di pochi. Sembra quasi che Legrenzi e Umiltà non vogliano urtare la nostra suscettibilità e anziché parlare di ignoranza artificiale parlino di “inconscio artificiale” trovando al tempo stesso in esso un modo per espandere il campo dell’inconscio cognitivo, che si premurano di tenere separati da quello freudiano. Scrivono infatti Legrenzi e Umiltà: “Esiste un’altra ragione, più solida, che induce a mantenere la distinzione fra due tipi di inconscio: l’inconscio cognitivo e l’inconscio freudiano. È chiaro che entrambi i tipi di inconscio non sono, per definizione, esperibili direttamente. Quando, però, all’inconscio cognitivo è tolto il velo che lo nasconde e i suoi contenuti emergono a livello di coscienza (in questo libro, vedremo esempi di come ciò sia possibile) si scopre che sono contenuti «normali». Sono esattamente identici a quei contenuti che erano consci fin dal principio. I contenuti dell’inconscio cognitivo sono qualitativamente uguali ai contenuti consci. Il fatto che diventino consci non ci cambia la vita, soprattutto non ci costringe a fare i conti con loro. Tutt’altra cosa sono i contenuti dell’inconscio freudiano. L’inconscio freudiano è considerato come costituito da contenuti oscuri, difficilmente esplicitabili e, frequentemente, paurosi se esplicitati.“ (Ibidem pp. 92-93). 

Nell‘inconscio artificiale di Legrenzi e Umiltà emozioni e sentimenti non solo non trovano spazio ma vengono, deliberatamente, tenuti al di fuori dei confini e relegati, come nelle antiche cartografie, nei territori dove sunt leones. Sinceramente trovo ai nostri giorni singolare e artificiosa questa separazione – per non dir scissione – tra un inconscio cognitivo e uno emozionale quando anche le neuroscienze confermano la validità della geniale intuizione freudiana dell‘inconscio tout court. Scrive Tallis, autore di una Breve storia dell’inconscio: “Freud insisteva sul fatto che le questioni fondamentali della vita mentale umana potessero essere risolte solo facendo riferimento a uno strato della mente inaccessibile al controllo cosciente. La maggior parte dei filosofi contemporanei, neuroscienziati e psicologi, è giunta esattamente alla stessa conclusione. L’inconscio non è più un vicolo cieco concettuale e teorico. L’inconscio è una strada verso un orizzonte al di là del quale sta il futuro delle neuroscienze.” (Ibidem 357-358) 

Balick suggerisce che “le parti di noi stessi che proiettiamo in Internet, le parole dei nostri tweets e dei nostri blog possano essere una sorta di sogno sociale“, “un’associazione libera socio-culturale”, una sorta di innovativo ampliamento del nostro inconscio collettivo

Con Aaron Balick e le sue stimolanti considerazioni su Internet e Social Media come schermo di proiezione dei nostri affetti e di noi stessi entriamo invece in una concezione psicodinamica dell‘inconscio digitale, inteso in analogia all’inconscio psicoanalitico ovvero all’inconscio tout court. Così come il sogno è per Freud la via regia all’inconscio, Balick suggerisce che “le parti di noi stessi che proiettiamo in Internet, le parole dei nostri tweets e dei nostri blog possano essere una sorta di sogno sociale“, “un’associazione libera socio-culturale”, una sorta di innovativo ampliamento del nostro inconscio collettivo. L‘inconscio digitale di Balick accoglie dunque pensieri e sentimenti, emozioni e informazioni, insomma tutto quello di cui siamo fatti. 

Il filosofo Clint Burnam nel suo “Does the Internet have an Unconscious? Slavoj Zizek and Digital Culture”, Bloomsbury Academic, New York, USA giunge addirittura alla (discutibile) conclusione che non solo possiamo capire il digitale solo con le intuizioni della psicoanalisi ma che possiamo capire la psicoanalisi oggi solo attraverso il digitale (“not only that we can only understand the digital with the insights os psychoanalysis, but that we can only understand psychoanalysis today via the digital” ibidem pp 94- 95). Burnam interpreta il testo L’inconscio di Freud come una teoria ante litteram di come noi ci relazioniamo con Internet (“I would like, here, to parse Freud’s text as a theory avant la lettre of how we relate to the Internet Ibidem pag 81)

Senza giungere a tali pindariche vette di pensiero, mi accontenterei di sottolineare che il digitale che abbiamo creato e l’inconscio che ci portiamo dentro sono parenti. D’altro canto, a ben pensarci, le origini della parentela sono facilmente intuibili. Il mondo digitale è la realizzazione concreta, in silicio, dei nostri sogni diurni e i loro cugini più noti, “i sogni notturni sono la via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica” (Freud).

Mi si dirà che è una parentela molto astratta, ancor più di quella degli alberi genealogici delle case reali. Veniamo allora a un aspetto molto più concreto, in cui possiamo sperimentare molto direttamente l’effetto dell’inconscio sul digitale e del digitale sull’inconscio. Quali sono e che caratteristiche hanno le nostre relazioni all‘interno del digitale? Come ci muoviamo all’interno di quella parte del continente digitale costituito dai social network, indubbiamente una delle grandi rivoluzioni del digitale? Lo analizza brillantemente lo psicoterapeuta Aaron Balick, nel suo The Psychodynamics of Social Networking.

Uno dei meriti di Balick e dei suoi lavori è proprio quello di dimostrare che i SN non sono solo l’espressione di interessi economici, finanziari, sociali ma si fondano anche su un reale bisogno psicologico di riconoscimento che fonda la relazione e agisce a doppio senso: desiderio di essere riconosciuto ma anche desiderio di scoprire e riconoscere l’altro secondo una tensione dialettica che comincia già fin dai primi giorni di vita con l’interazione madre-bambino. Proprio il legame madre bambino è il modello di riferimento per meglio comprendere le relazioni sui SN. Come evidenziato tra gli altri da Winnicott prima (1969) e Benjamin poi (1988), il bambino percepisce inizialmente la madre soggettivamente come una parte di sé, correlata (related to) e non come un reale oggetto esterno, indipendente. Con lo svilupparsi del rapporto il bambino giunge però a percepirla obiettivamente come un’entità esterna e non semplicemente come qualcosa che sta nella propria mente. Tale maturazione è però un processo lento e progressivo indicato da Winnicott come “intermediate area of experience”. I fenomeni transizionali che avvengono nel corso di questa fase costituiscono i primi stadi dell’illusione, senza la quale – sostiene Winnicott – non vi sarebbe nemmeno la possibilità di immaginare il rapporto con un oggetto esterno. Tale fase “transizionale” fa infine approdare il bambino, attraverso la sperimentazione della realtà, alla percezione dell’obiettività.

I SN costituiscono, secondo Balick, un analogo spazio transizionale che attiva da una parte le nostre fantasie di onnipotenza e al contempo evidenzia come noi percepiamo gli altri secondo uno spettro che va dalla soggettività all’obiettività: nel primo caso percepiremo gli altri semplicemente come parti di noi (related to) e dunque pienamente a nostra disposizione, nel secondo caso come soggetti esterni da noi indipendenti, con i quali trattare da pari a pari. Nel mezzo si dispiega naturalmente una serie infinita di sfumature all’interno di un “Cyberspace (che) funziona come l’inconscio, ricordando tutto, mentre la coscienza conserva solo ciò che è attualmente sullo schermo..”(Ibidem pag 110). Lingiardi, citato dallo stesso Balick, sostiene analogamente che “l’oggetto di transizione, sta a metà tra Me e non-Me, tra realtà e fantasia, tra vicino e lontano, tra ciò che creiamo e ciò che scopriamo. Fungendo da potenziale spazio tra soggetto e ambiente (uno spazio per sperimentare il Sé tra me e me e tra me e l’altro), l’esperienza online, che in molti casi facilita e alimenta la dissociazione, può anche aiutarci a illuminare il difficile percorso tra l’ansia da separazione e l’essere inghiottiti dall’oggetto.“ (Ibidem p. 487)

Sui social media ci troviamo in una sorta di condizione per certi versi sperimentale ed intermedia nella quale siamo insieme attori e osservatori

Balick conclude:

“Assumo che la presentazione del sé online operi come un oggetto transizionale nello spazio transizionale che è il social network online. Il sé si apre come oggetto sotto lo sguardo degli altri: è “me” (o almeno una rappresentazione di me) ed è allo stesso tempo “non me” perché è là fuori nello spazio di transizione. Una volta che è fuori dalla psiche ed è divenuto online, (il sé) cade al di fuori dal proprio controllo, non importa quanta cura sia stata riservata alla sua presentazione originale. Diventa “come me” ma “non me” (Ibidem pag 111). Sui social media ci troviamo dunque in una sorta di condizione per certi versi sperimentale ed intermedia nella quale siamo insieme attori e osservatori, possiamo osservare come la rappresentazione che abbiamo dato del nostro sé si mette in relazione con gli altri e gli altri con lui e al tempo stesso percepire quale sia l’effetto che ciò provoca in noi. Ammesso però che abbiamo la capacità di non farci travolgere dallo spettacolo teatrale, cui partecipiamo ed assistiamo insieme, prendendolo per vero. Penso che Pirandello potrebbe scrivere una piece geniale sui Social Media. Ora i (sei) personaggi non sono più in cerca del loro autore, lo sono diventati loro stessi, anche se, generalmente, non se ne rendono conto.

Ma sui Social Media così come possiamo lasciarci travolgere dalle fantasie di onnipotenza non riconoscendo l’altro, possiamo anche incorrere nel rischio di rinunciare al nostro sè, cioè al processo di elaborazione di qualcosa all’interno di noi stessi, per divenire semplice conduttori di informazioni altrui. Balick riporta l’esempio citato dal filosofo Lanier che aveva chiesto al suo uditorio di non twittare o postare durante la sua conferenza:

“Not out of respect for me . . . but out of respect [for the audience] themselves. If something I said was memorable enough to be worthy of a tweet or a blog post later on . . . then that meant what I said would have had the time to be weighed, judged, and filtered in someone’s brain. Instead of [members of the audience] just being a passive relay for me . . . what was tweeted, blogged, or posted on a Facebook wall would then be you. Giving yourself the time and space to think and feel is crucial to your existence . . . you have to find a way to be yourself before you can share yourself” (ibidem pag 24)

Dare a se stessi il tempo e lo spazio per pensare e sentire è davvero fondamentale per la propria esistenza. Bisogna trovare un modo per essere se stessi prima di poter condividere se stessi. È l’antitesi della viralità ma la premessa per un consapevole uso del Social Networking e più in generale per un consapevole rapporto con il digitale e con se stessi.

Essere contemporaneamente in relazione con se stesso e con l’altro é estremamente difficile e complesso e la compulsione a condividere qualcosa congiunta alla facilità tecnica di farlo può portarci a bypassare la complessità relazionale. Balick ci invita a riflettere sul fatto che il social networking nelle sue piu svariate sfaccettature offre un’architettura in cui viene mediato il rapporto di identità e relazione, uguaglianza e differenza. Tale architettura non è nè buona nè cattiva ma nemmeno neutra avendo reali conseguenze su di noi e sul nostro rapporto con gli altri.

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