Non solo più schermi, ma anche nuovi usi di ciascuno schermo

Quando realizziamo un video, non importa se un vero e proprio programma televisivo o un semplice filmato amatoriale, tendenzialmente diamo la priorità a ciò che riguarda il contenuto del video. Ovviamente lo facciamo in relazione alle aspettative di chi lo guarderà, possibilmente dall’inizio alla fine. Cureremo dunque la produzione e – se necessario – la post produzione con l’obiettivo di tenere agganciato lo spettatore per tutta la sua durata, indipendentemente dalla situazione in cui si troverà in quel momento.

Ora che però (grazie alla rete) gli schermi si sono moltiplicati, sorge il problema di un fruitore di cui sempre più raramente conosciamo in anticipo la “condizione d’uso”. Se si trova in soggiorno, davanti allo schermo del salotto (nella tipica posizione passiva, che gli anglosassoni chiamano “lean back“) o magari proteso in avanti mentre interagisce attivamente col computer (“lean forward”). O magari in camera da letto, col proprio tablet, oppure in piedi, su un mezzo pubblico, col proprio smartphone. Il punto è che non è più possibile prevederlo, e – contariamente a quello che ci hanno ripetuto per anni – la scommessa di confezionare un contenuto con l’idea di destinarlo necessariamente a un particolare tipo di schermo, con qualche residua eccezione, è persa per sempre.

In particolare, quando uno “show” nasce sul web (un paio di nomi: Rocketboom e Engadget Show) ci si preoccupa al massimo di produrre in diversi formati file in base alla rete che dovrà veicolarli (più leggeri per le reti mobili, più pesanti per la banda larga) ma il format rimane lo stesso, indipendentemente dal tipo di schermo su cui sarà fruito.

E di questo il mondo della produzione comincia a rendersi conto non solo per la “non prevedibilità” dello schermo, ma anche perchè le persone hanno trovato nuovi modi per usare sia i vecchi che i nuovi schermi.

Il re del salotto, il “first screen” che ormai è sempre più un flatscreen in formato 16:9, non è più necessariamente qualcosa che accendiamo con l’idea di vedere un programma in grado di egemonizzare le nostre azioni nell’ambiente domestico, se si eccettuano contenuti premium come gli eventi sportivi o i film in prima visione. E infatti sono nati interi canali televisivi (come i cosiddetti “all news”) che vengono visti in piedi, piuttosto distrattamente, mentre nel soggiorno accade di tutto. E’ una tv che non si sostituisce più alla nostra vita, che non prova più a surrogarla, al massimo prova ad integrarla.

E anche quando la televisione prova a “ricominciare a raccontare storie” sa benissimo che il pubblico – specialmente quello giovanile – ha spesso gli occhi puntati su un secondo schermo dove magari conversa sui social media proprio a proposito del programma che va in onda, permettendo paradossalmente alla televisione tradizionale (mediante “l’appointment viewing”) di recuperare la propria funzione di aggregatrice sociale. Una magra consolazione, quando ormai è sempre più chiaro che la risorsa scarsa non è più solo “l’audience”, ma l’attenzione di ogni singolo spettatore, col rischio di combattere una battaglia di retroguardia, cioè “la battaglia tra schermi”.

Ma fin qui abbiamo parlato di trend ormai piuttosto maturi. Spingendoci più avanti, potremmo ad esempio chiederci cosa accade alla nostra interazione istintiva con lo schermo non solo in fase di fruizione, ma anche in quella della produzione di contenuti?

Accadono cose più imprevidibili e “acerbe”, cui la stessa industria dell’elettronica di consumo, i produttori di device, sembrano non prestare la necessaria attenzione. Accade per esempio che le persone, coi loro smartphone, riprendano sempre più spesso video in formato verticale. Un formato in cui sembrano eccellere, per motivi non ancora chiari proprio le donne. Sulla presunta propensione femminile verso il formato 9:16 (e sugli impescrutabili motivi di questo istinto) non esistono dati certi, ma alzi la mano chi non ha mai visto una giovane mamma, estratto l’iphone dal taschino, riprendere il video del proprio bambino in formato verticale. Beh, io non alzo la mano.

A trazione maschile o femminile che sia, la proliferazione del tallscreen ha comunque comportato problemi tecnici alle varie piattaforme di video sharing: Facebook prima e Youtube dopo si sono adeguati, riconoscendo in automatico l’orientamento e ruotando adeguatamente il prodotto finale, mentre Vimeo ha persino creato un canale ad hoc. Di fatto, viene messa in discussione quella che si pensava fosse la nostra naturale propensione a riprodurre il nostro campo visivo, con conseguenze su cui solo adesso “i padroni del vapore”, presi in contropiede, sembrano iniziare a riflettere seriamente.

Del resto, per tornare ai trend comportamentali di fruizione, in pochi avrebbero immaginato che col passaggio dal 4:3 al 16:9 pochissime persone avrebbero accettato, al momento di guardare un “vecchio” video su un “nuovo” schermo, le inevitabili bande verticali, preferendo distorcere completamente l’immagine pur di occupare l’intera superficie del televisore, col risultato (sorprendentemente accettabile per la grande maggioranza) di conduttori televisivi, veline e calciatori ridotti a buffi personaggi tarchiati.

Solo l’ennesima conferma di come, al momento di pensare a cosa produrre e a come farlo, l’industria dei contenuti quasi si rifiuti di indagare meglio su cosa succede nella vita delle persone a casa, in ufficio, in mobilità.

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Antonio Pavolini lavora da oltre 15 anni nel settore dei media. Dopo una serie di esperienze nella comunicazione istituzionale, prima in agenzia e poi in azienda, dal 2009 si occupa, nell’ambito della funzione Strategy del Gruppo Telecom Italia, dell’analisi degli scenari e dell’elaborazione delle strategie nella Media Industry. Dal 2011, nell’ambito della funzione Innovazione, si occupa di valutare potenziali partnership con start-up impegnate in progetti di creazione e distribuzione di contenuti multimediali. Esperto delle issues del mercato dell’Information & Communication Technology, svolge docenze e collaborazioni in ambito accademico. Dal 2008, in particolare, è membro del Teaching Committee del Master Universitario in Marketing Management (MUMM) della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma”. Ha inoltre condotto trasmissioni radiofoniche come "Conversational“, in onda su Radio Popolare Roma nel 2010-2011, nel corso della quale ha approfondito l’impatto dei social media nell’economia, nella cultura, nella politica e nella vita quotidiana delle persone.

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