«La privacy esiste ancora?» Con questa domanda, qualche giorno fa, una giornalista mi ha invitato a commentare questa estate in cui – più del solito – abbiamo guardato “le vite degli altri” attraverso i social media, oltre che da giornali e TV.
Pur consapevole che – per molti – la risposta sarebbe stata «No!», ho spiegato perché – per fortuna, a mio avviso – la privacy non sia morta, anche se il concetto di riservatezza è destinato, più di altri, a mutare nel tempo e ad essere eroso sia dall’evoluzione sociale che dal progresso tecnologico che stiamo vivendo.
Internet e i social media hanno impattato in modo epocale sulla privacy, sotto un duplice ordine di profili:
- giuridico: le leggi in materia di riservatezza, scritte solo pochi anni fa, sono diventate rapidamente obsolete, per non parlare delle numerose questioni di compatibilità normativa che si sono poste in relazione alle piattaforme social maggiormente utilizzate;
- culturale: gli utenti, specialmente i più giovani, condividono volontariamente una mole sempre crescente di informazioni che li riguardano, spesso senza adeguata consapevolezza. Consapevolezza del fatto che tutti possono accedere a quelle informazioni, che i contenuti condivisi possono essere incrociati con altri dati e che su di essi – una volta pubblicati – si perde il controllo.
Emblematico in questo senso è il caso di Instagram. La nota applicazione di condivisione di foto usata da oltre 80 milioni di utenti nel mondo, è stata di recente rilasciata nella versione 3.0 che, tra le altre novità, prevede la c.d. “Photo Map”. Si tratta, in sostanza, della possibilità di visualizzare su di una mappa le foto condivise da ciascun utente.
Le nuove funzionalità di Instagram, recentemente acquistata da Facebook (ma che, a quanto pare, avrebbe sviluppato la nuova versione in autonomia), sono ispirate al principio caro a Zuckerberg per cui “sharing more is better” (ovvero, più l’utente condivide e meglio è). L’intento, neanche troppo nascosto, è quello di trasformare Instagram in una sorta di nuovo “street view” in cui sia possibile visualizzare i luoghi (anche l’interno dei locali) attraverso le foto degli utenti.
L’introduzione della “Photo Map” serve quindi ad aumentare il numero di utenti che geotaggano le proprie foto (adesso sono soltanto il 15-20%); e l’intento sembra raggiunto: come spesso accade, spinti dal rilascio della nuova funzionalità, molti utenti hanno deciso di aggiungere anche le vecchie immagini alla propria mappa.
Dopo l’aggiornamento, gli utenti hanno visualizzato un succinto popup che contiene solo i seguenti avvisi
“Siate consapevoli delle foto che aggiungete alla vostra mappa. La loro posizione sarà visibile a tutti coloro che visitano la vostra mappa.”
e
“Puoi rimuovere una foto dalla tua mappa in qualsiasi momento”
Nessun richiamo (o link) all’informativa sulla riservatezza o ai termini di servizio né alle informazioni che sono state rese disponibili sul sito di Instagram (ma alzi la mano chi ha mai visitato il blog di Instagram).
In teoria, le Photo Map degli utenti con profilo privato, anche quando georeferenziate, non dovrebbero essere visibili agli altri; in pratica, la versione Android dell’applicazione a causa di un bug, tempestivamente risolto, ha reso visibile anche la mappa (e le relative foto) degli utenti con profilo privato.
Dal punto di vista giuridico, credo sia quantomeno discutibile che la società non abbia deciso di modificare anche la propria scarna privacy policy in corrispondenza del rilascio di questa nuova release. Per non parlare del fatto che tanto l’informativa sulla privacy quanto i termini di servizio possono essere modificati in qualsiasi momento (ed in modo unilaterale): quindi questo significa, ad esempio, che è astrattamente possibile che la Photo Map possa essere integrata con altri servizi (come Foursquare o Facebook) oppure che le immagini degli utenti possano essere utilizzate per la promozione di attività commerciali sulle mappe.
Ma l’aspetto che più colpisce è la scarsa consapevolezza sui rischi che questo tipo di funzionalità può avere per la sicurezza fisica degli utenti che scelgono di condividere volontariamente le proprie foto georeferenziate. Attraverso la Photo Map, infatti, è possibile ricostruire dove vivi e lavori, dove sono i tuoi clienti ed interessi, dove vai a prendere l’aperitivo e dove vai in palestra.
Per rendersi conto di come le informazioni che condividiamo sui social possano essere utilizzate, ad esempio, da “topi d’appartamento” o stalker sono stati realizzati siti come Pleaserobeme.com e WeKnowYourHouse.com che rappresentano esperimenti nati per sensibilizzare contro i rischi di un’eccessiva condivisione. Il problema, infatti, non è tanto “la fine della privacy” quanto – piuttosto – una scarsa cultura della riservatezza e di un uso consapevole del web sociale.
Ma, visto che i fornitori dei servizi credono che “sharing more is better” e i media – di norma – sembrano avere interesse a sensazionalizzare le notizie relative al Web 2.0 (a quando il titolo “Casa svaligiata grazie a Instagram?”), mi chiedo: a chi compete il compito di promuovere un uso rispettoso della riservatezza (propria e degli altri)?
Il buon senso, lo sappiamo già, purtroppo non basta!
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