Nel mondo del Social non vogliamo più controllare solo il pensiero…

Nel buon vecchio mondo della pubblicità tradizionale, all’epoca dei Mad Man e nelle decadi successive, l’obiettivo della comunicazione aziendale era quello di condizionare il nostro modo di pensare – e di conseguenza i nostri comportamenti. Detto in maniera più elegante, sviluppare operazioni di advertising per far cambiare la nostra percezione, il nostro modo di vedere la marca e il prodotto, costruire la percezione dei valori di marca. Influenzare gli atteggiamenti.

Di qui innescare un mutamento dei comportamenti, tipicamente finalizzati a far consumare di più il prodotto, a farlo preferire alla concorrenza o a soluzioni alternative del problema che cercavamo di risolvere al target.

Pensa pure, ma parla.

L’avvento dei Social ha invece innescato un’altra richiesta da parte delle aziende. Non tanto ( o non solo) controllare come pensiamo (d’accordo, controllare è una parola grossissima….) ma influenzare cosa diciamo.

Se siete un blogger di spicco, di quelli che vengono invitati a numerosi eventi, questo è evidentissimo: si cerca di diventare partner con questi influencer per fare sì che parlino di noi. Diffondano il nostro verbo. Cosa che io faccio, tra l’altro volentieri… se vale la pena.

La storia che la marca mi propone la racconto – se è interessante, se è una novità utile per i miei lettori, se il tema è affine al contenuto del mio blog (sostanzialmente case history di comunicazione e strategia, ci sta). Anzi, mi fanno un favore, mi danno buoni spunti per raccontare storie italiane, in un mondo dove di case history nazionali buone non c’è questa grande abbondanza.

Certo, altro è pagare i blogger e nondichiararlo, fare le marchette. Ma questa è una storia ad oggi che mi sembra ancora relativamente marginale.

Agisci tu, fai cambiare il comportamento agli altri

E’ evidente, questa tendenza a comunicare per farci parlare, nell’approccio virale  (spesso più una teoria, un desiderio che un modello di comunicazione affidabile e ripetibile).
Trasformare l’utente in portavoce che passa la parola, amplifica gratuitamente il nostro messaggio portandolo ad altri utenti (con il caveat che “gratuitamente” si riferisce all’aspetto media: per l’aspetto produttivo moltissimi dei viral che hanno funzionato sono costati fior di quattrini). Pensiero, parole ed opere sincronizzate a favore del business.

Il tutto basandosi sia sulla ricerca dell’efficienza economica sul fronte dell’acquisto di spazi (il media) sia sulla maggiore credibilità delle persone rispetto alle marche… anche se è delicata la questione di quanto possa essere credibile una persona che si fa platealmente e acriticamente portavoce del messaggio di un’azienda, di un prodotto.

Tema delicato, su cui troppe aziende vanno con la mano pesantissima, quasi pensando (sembrerebbe) che le persone siano stupide e non sappiano leggere fra le righe, che non vedano l’ora di parlare e sentir parlare di un prodotto senza novità, di una marca senza qualità… insomma, mutuando le modalità operative classiche della pubblicità che parla top down. Un tema anche delicato dal punto di vista.. mah, chiamiamolo etico, anche se mi sembra una parola grossa.

Un mondo insomma dove l’azienda ci chiede non solo di diventare un passivo ricettacolo di opinioni mutuate dalla comunicazione dell’azienda, ma un attivo propagatore, diffusore di un messaggio aziendale. Un partner nella comuncazione, un portavoce, uno che parla a nostro favore.

Ma il problema, troppo spesso è: se siamo partner, cosa mi dai, davvero, in cambio della mia prestazione?

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