Per il digitale, il problema non sono i soldi

È un titolo ovviamente provocatorio. Quando si parla di Agenda Digitale e di innovazione è evidente che servono risorse economiche per sostenere investimenti, soprattutto in capitale umano e capacità progettuali. Ma se guardiamo a quello che è successo in questi anni in Italia, ci accorgiamo che la principale causa del mancato decollo dell’innovazione digitale nel nostro paese – e in particolare nella Pubblica Amministrazione – risiede in situazioni e problemi ben più profondi e critici. Di soldi, spesso, ne sono stati spesi molti; in troppi casi, sono stati utilizzati malamente. Perché? E quali sono quindi gli snodi per cercare di offrire un reale cambio di passo nei processi di innovazione e digitalizzazione del paese?

A mio parere, le cause profonde dello stallo in cui ci troviamo sono due:

1. Una cronica, profonda e ancestrale ignoranza e avversione nei confronti dei temi dell’innovazione digitale

innovazioneLa cultura e la società italiana vede troppo spesso queste tematiche come un “male necessario” o una iattura che ci arriva da quei paesi che non avendo il sole, l’arte e il turismo non hanno altro da fare che produrre iPhones, social networks e smart TV. Delle tecnologie digitali si ha una visione non diversa da quella di una comune “commodity”: “cose” che si comprano, si montano e si usano. “Quale sarà quindi mai il problema nell’utilizzo di queste tecnologie? Compriamole e usiamole, se proprio è necessario.” Ovviamente la situazione non è questa. Le tecnologie digitali sono “game changers” che trasformano nel profondo realtà, mercati, strutture sociali. In generale, sono tecnologie complesse ben lontane dall’essere assimilabili in modo generalizzato a pure commodity. D’altronde, se fossero tutte commodity e fosse così “ovvio” e “immediato” utilizzarle, perché ciò non accade e perché molte volte ingenti risorse vengono sprecate inutilmente?

Non bastano divulgatori appassionati che raccontino le meraviglie del digitale, magari citando in modo un po’ ripetitivo i soliti stereotipi come i social network americani o il bisogno di creare startup. Non servono nemmeno gli “smanettoni” appassionati e dominati da singole fissazioni tecnicistiche: sono coloro che ricadono nel paradosso di un famoso detto americano che recita “per un martello, il mondo è fatto solo di chiodi”. E sono tutto sommato ormai abbastanza inutili anche le innumerevoli analisi socio-economiche che ci illustrano stupefacenti moltiplicatori di crescita dovuti a investimenti in innovazione digitale: credo che chi avesse voluto capire, l’ha capito, mentre chi rimane scettico o avverso non cambierà certo idea per l’ennesimo studio dove si dimostrano le “magnifiche sorti progressive” legate agli investimenti in tecnologie digitali.

È venuto il tempo del fare lungimirante, delle competenze, della capacità progettuale, delle conoscenze di dominio, delle tecnologie e dei processi e ambiti nei quali devono essere utilizzate. Tutto il resto sono chiacchiere vuote che non ci portano da nessuna parte. È come discutere del condimento di un arrosto senza avere nemmeno un grammo di filetto.

2. Una cronica, profonda e ancestrale incapacità di disegnare processi di governance che funzionino

L’ultimo passaggio che proponevo in precedenza introduce l’altro tema di fondo: come gestiamo questi processi? Ormai c’è da sperare sia evidente a tutti il bisogno di una cultura e di un impegno profondo e diffuso a favore dell’innovazione digitale. Come è noto da anni, queste tecnologie attraversano tutti gli ambiti e i livelli amministrativi, economici e sociali del paese. Quindi certamente “tutti” si devono occupare di digitale. Tuttavia, non ci muoveremo di molto dalla situazione dove ci troviamo senza una regia vera, autorevole e non formale, e senza una ownership forte dei processi decisionali e di progettazione e attuazione delle soluzioni. Non è possibile che ogni ministero, ogni pubblica amministrazione locale o regionale possa operare in modo sostanzialmente autonomo, moltiplicando investimenti scorrelati, incoerenti, sovrapposti, incompatibili, spesso velleitari e inutili. È una corsa al “faso tutto mi” che non fa altro che sprecare risorse pubbliche, creando rivalità e sterili contrapposizioni, senza che si riesca ad introdurre alcun reale segno di discontinuità nella vita dei cittadini, delle imprese, della società nel suo complesso.

Che fare quindi?

Credo sia vitale mettere al centro del dibattito alcuni passaggi chiave:

  • Diamo responsabilità forti e chiare a chi è portatore di competenze realmente in grado di plasmare le tecnologie digitali per definire iniziative utili allo sviluppo del paese. Non bastano economisti, sociologi, divulgatori, praticoni: servono professionisti e innovatori che conoscendo la materia del contendere la sappiano utilizzare per creare e mettere in campo soluzioni concrete per la risoluzione di problemi concreti.
  • Creiamo strutture di governance che funzionino realmente e non semplicemente che accontentino i bisogni di equilibrio politico tra le diverse forze in campo. Mi è ben chiaro che alla fine gli equilibri politici sono ineludibili. Ma è più ingenuo chi per una volta li vorrebbe in secondo piano rispetto alle decisioni necessarie al paese, o chi pervicacemente pensa che il “primato della politica” lo si garantisca con i compromessi e senza risolvere una volta per tutte i problemi gravi che il nostro paese si trascina da decenni?
  • Decidiamo di plasmare norme e leggi mettendo in campo driver che spingano in modo diffuso l’innovazione digitale. Non sono sufficienti i “piani top-down”: è vitale anche inserire in ogni legge, in ogni norma attuativa, in ogni regolamento o criterio di gestione del personale, una serie di driver, vincoli, incentivi, criteri di gestione che rendano conveniente, preferibile e semplice “passare” al digitale. Ciò deve accadere sia sul fronte dei servizi (per esempio, fare una pratica in modo digitale non può avere costi per l’utente maggiori, anzi deve essere il contrario), sia sul fronte della valutazione del personale della PA. È vitale premiare e valorizzare chi si fa attore positivo dei processi di digitalizzazione e non considerarlo una sorta di problema o un’eccezione da tollerare.
  • Mettiamo mano ad alcuni passaggi chiave che liberino energie e sblocchino situazioni ferme da anni. Mi vengono a questo proposito in mente tre esempi che certamente non vogliono esaurire lo spettro delle cose da fare, ma solo indicare il senso del cambiamento da introdurre. Primo, banda larga e ultralarga: se ne discute da anni ed è venuto il momento che si passi dal dire al fare. Si decida una volta per tutte l’assetto da dare al mercato delle telecomunicazioni del paese e si proceda. Ritardi e infinite discussioni non sono più accettabili. E si connettano tutte le scuole e strutture pubbliche in banda larga (fibra se possibile): invece di decidere dall’alto come fare la didattica, si dia alle scuole un accesso ampio e libero alla rete, lasciando alla creatività e alla autonomia degli insegnanti e degli studenti la decisione di come utilizzare al meglio queste risorse. La parola chiave dovrebbe essere “abilitare”, non “impartire direttive” o “definire top-down modelli di intervento”. Secondo, ripensiamo l’SPC Cooperazione Applicativa. Abilitare l’interoperabilità tra PA è vitale per far fare un reale salto di qualità ai processi delle PA. SPC Coop è troppo complicato sia sul fronte tecnologico sia sul fronte delle procedure amministrative (si pensi per esempio ai controlli sulla privacy nei rapporti tra PA). Dobbiamo prendere atto che il mondo è cambiato e che esistono approcci leggeri e agili che realizzano open service (non semplicemente open data che da soli servono a poco!) in ambienti aperti e standardizzati (vedi progetto E015 di Expo). Terzo, prendiamo una decisione definitiva sul destino delle società in house di informatica. Tenerle in vita vincolandone le attività non serve a nulla. Si prenda una decisione, sbloccando una volta per tutte un altro pezzo di Italia rimasto a metà del guado.
  • Non ho certo l’ambizione di risolvere in poche righe questioni che si trascinano da decenni. Ma credo fortemente che per far cambiare passo al paese dobbiamo introdurre discontinuità radicali di mentalità e di modus operandi, prima ancora che pensare alla singola iniziativa e al singolo progetto.
  • Ad Einstein vengono spesso attribuite delle frasi che, al di là della loro reale paternità, trovo illuminanti: “Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la più grande benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera se stesso senza essere “Superato”. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e da più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell’incompetenza.Meditiamo gente, meditiamo.

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1 COMMENT

  1. Certamente non é un problema di soldi.
    Il problema é la PA che verrebbe devastata dal digitale con perdita di potere, posti lavoro in essere e prospettici per i parenti di chi nella PA ci vive e la fornisce.
    Vuole un esempio di quali meccanismi mette in moto l’inefficienza?
    Ricorso fiscale iniziato nel 99, durata 10 anni, un anno per pubblicare la sentenza di cassazione, tre anni che il fisco cavilla per non pagare
    , visto che ha perso, e 300 nuove cause di cui alcune fissate nel 2014.
    Ogni cavillo, ogni ritardo, giustifica l’esistenza di apparati che il digitale eliminerebbe.
    E perché la PA si dovrebbe suicidare?
    E perché la politica dovrebbe perdere lo stuolo di pretoriani che la difende?

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