Smart time: universal accessible time?

Se la parola “smart” è divenuta di uso così comune passando dall’essere uno dei tanti aggettivi della lingua inglese al concetto che definisce, ritaglia e fotografa in cinque lettere un’attitudine d’acquisto, un comportamento tecnologico, un digital device o un modo di essere di una persona o di un gruppo di persone lo dobbiamo, come noto, ad Howard Rheingold e alle sue “Smart Mobs. The next social revolution”: era il 2003 e il suo libro che portava questo titolo fece epoca, spartì in due il dibattito sulle “folle”, le “moltitudini” che con l’uso della tecnologia si catalizzavano intorno ad un obiettivo.

Rheingold nel suo libro ne descriveva più di uno focalizzando, anche con spunti dall’attualità, come l’uso del telefono, degli sms, degli strumenti consentiti da una tecnologia digitale fossero in grado di performare il “qui e ora” di chi la utilizzava verso obiettivi comuni nel momento in cui diffusi – e condivisi – appunto tramite la tecnologia stessa. Era presto per parlare dell’effetto agglomerante dei social network, dell’esibizione universale del proprio sé anche se la vetrinizzazione della socialità e dell’individualità erano già dentro gli usi e i nascenti costumi digitali di persone che prendevano la forma delle stesse azioni digitali fatte insieme, convocate in modo sincrono e capace di andare alla velocità della Rete. Così erano le smart mobs e si dibatteva sul significato autentico di questo “smart” fino ad allora rintracciabile nei dizionari come “astuto, intelligente, …”. L’enciclopedia on line della Treccani tuttora presenta “smart mob” come neologismo così definito: “Assembramento intelligente: incontro di gruppo finalizzato a compiere un’azione collettiva, organizzato mediante una convocazione a catena inoltrata su siti Internet o tramite messaggi di posta elettronica”.

smart

Smart è tutto questo ma è diventato molto di più, di fatto esprimendo un’identità cui questo tempo vuole aspirare con i servizi, le infrastrutture, le offerte commerciali, le opportunità offerte a profili utenti che, a loro volta sempre più smaliziati e pronti a recepire, desiderano  vivere tutte quelle utilities a valore aggiunto che un ambiente smart – che sia un sistema operativo, un telefono, un servizio, una città o una community – può  sprigionare.

E dunque è “smart time” e Bologna ospitando “Smart City Exhibition” lo dimostra pienamente con un’iniziativa che prefigura il futuro presentandolo nelle potenzialità e nelle possibilità che già abitano il nostro presente. TechAbility@work non può non sentirisi pro-vocato a riflettere su questo tema in cui “comunicazione, qualità e sviluppo nelle città intelligenti” – lo slogan che invita a BolognaFiere in questi giorni – sono elementi salienti anche di un qualsivoglia progetto di accessibilità completo che guardi alle persone con disabilità come a soggetti che in primis necessitano di informazioni precise, aggiornate e il più possibile interrogabili e interattivi, di qualità dei servizi, di sviluppi delle città in cui la sostenibilità diventi sinonimo di mobilità, qualità della vita in autonomia, opportunità di ricevere informazioni e indicazioni da un contesto ambientale intelligentemente a servizio di chi lo percorre e lo abita.

Riflettendo sull’accessibilità nelle nostre città, messa in questi termini, il pensiero non va tanto alle barriere architettoniche o sensoriali di cui sono piene in modo irrisolto (eppure risolvibile); piuttosto il pensiero corre alle possibilità di superare in modo smart ostacoli sui cui la materialità dell’esperienza ancora si scontra. E allora, avere una città taggata sui percorsi accessibili, ricevere sul proprio smart device informazioni personalizzate rispetto ad un obiettivo da raggiungere (che sia turistico-culturale, professionale o di accesso ai servizi), sapere se addentrarsi verso un luogo o un ufficio sia una possibilità aperta e non un percorso ad ostacoli, se arrivando in un museo sia possibile far interloquire il proprio smart phone con un QR code, per fare un esempio, che si può abitare uno spazio la cui nervatura sociale è affiancata da una nervatura di dati accessibili che restituiscono elementi di accessibilità – vitali per molte e molte persone – allora questo è smart.

Smart così diventa più che la qualità di un aggettivo in sé, la forma stessa di un’attitudine, di un pensiero che si fa universale per accogliere tutti quelli che fino al 99 percentile, per dirlo mutuando il concetto dall’ergonomia, possono rientrarvi. La smart city accessibile adotta il criterio della progettazione universale perché questa stessa si traduce in “universal access”: utile a tutti, escludente nessuno.

QR code vista lago a Castel GandolfoUn esempio, solido e immateriale al tempo stesso, è incastonato nel selciato di muri antichi e “sanpietrini” delle strade di Castel Gandolfo, in provincia di Roma, cittadina sul lago nota per essere il luogo di una dimora del Papa: lì, camminando ci si imbatte in “mosaici” di QR code così bene armonizzati nell’ambiente da sembrare emergenti da un lontano passato, quasi codici di un tempo che non c’è più. Sono invece veri e propri varchi dimensionali eretti a sfidare il tempo perché fatti con piccoli pezzi di pietra che li fanno sembrare elementi decorativi a chi non li decodifica visivamente non conoscendo il QR code ma che invece ampliano il significato e le informazioni dell’ambiente per chi vi avvicina il proprio smart phone. E’ una possibilità, di certo molte altre ce ne sono per dare ad una città una dimensione “smart” ma di questa è interessante come la scelta di dare informazioni immateriali si sposi armonicamente con un valore estetico che fa dell’innovazione un fregio artistico che non resta però solo muro o strada ma che “aumenta” di contenuto e indicazioni le possibilità di chi si ferma per ammirarlo e invece vi può cliccare dentro.

Di app per la mobilità in autonomia, utili e strategiche per le persone con diverse disabilità, TechAbility si è già occupato. Ma quella delle smart cities è una dimensione in più: poiché si tratta di un’identità d’ambiente che può farsi accessibili alle diverse esperienze di strada e di partecipazione e non un servizio o una parte della vita della città. Il cantiere digitale per fare dell’Italia dei 1000 comuni altrettanto smart cities è del tutto aperto: accanto alle digital skills di ingegneri, programmatori, architetti e direttori “d’orchestra” sarebbe necessario che ci fossero gli intellettuali e gli utenti finali: i cittadini, particolarmente se stakeholders di processi di innovazione che incidono sensibilmente sulle proprie autonomie.

La smart city integra l’Internet of Everything, la connettività, il cloud fatto di servizi e moltiplicazione di contenuti condivisi, lo sviluppo di app interattive e integrative, il co-design, l’e-health, la cittadinanza digitale, la smaterializzazione dei dati e la loro trasformazione in big data; la smart city integra la sostenibilità ambientale e l’innovazione tecnologica e digitale con quella socio-relazionale, la rete dei dati con quella delle interazioni: perché se ciò non avviene i portatori di interesse, appunto gli stakeholders, restano tali e non raggiungono la condivisione degli interessi che è propria, invece, degli “shareholders”: e se una città è smart non può non tenere in conto la “citizen experience” dei suoi abitanti. E partire da lì.

 

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