Il paese del fondo tinta

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Spesso capita di vedere servizi giornalistici nei quali le grandi star dello spettacolo vengono fotografate struccate e senza ritocchi fotografici. Appaiono così le rughe, le imperfezioni, la pelle grassa, i brufoli. Ma soprattutto ci rendiamo conto che quel viso che appariva tanto attraente e convincente era solo un’illusione ottica, una promessa non mantenuta, un involucro senza sostanza.

Il nostro Paese vive la stessa sindrome.

Siamo travolti da personaggi che vivono coperti da un «fondo tinta» che ne maschera il volto. Vediamo una facciata attraente che ci illude, ci convince, crea consenso. Ma poi arriva la sera, ci si lava la faccia e appare il volto vero delle persone e delle cose.

Viviamo di annunci, promesse, declamazione delle «magnifiche sorti progressive» e del «futuro che verrà». Poi andiamo a guardare i fatti, i contenuti, le azioni, i risultati, e soprattutto gli effetti concreti che si sono ottenuti e ci accorgiamo che il tutto si riduce a poco o nulla. O peggio, emergono spietati gli errori, le carenze e i limiti di azioni superficiali, incomplete, di immagine. I numeri e soprattutto i fatti ci «lavano la faccia» e ci mostrano quel che siamo veramente, al di là e nonostante il fondo tinta che disperatamente usiamo per coprire quel che non vogliamo far apparire.

Si potrebbe dire che la colpa è di chi si mette il fondo tinta, di chi opera per apparire senza avere il coraggio, lo spirito di vero servizio e la competenza per incidere nei problemi. Questo è ovviamente vero, ma non mi pare il cuore del problema.

Il punto vero è troppo spesso chi deve valutare la bellezza di un volto non ha la voglia, il coraggio o la capacità di «lavare la faccia» e togliere il fondo tinta a chi «si trucca». A troppi piace osservare e bearsi del volto imbellettato e non hanno la forza o la volontà di andare al fondo delle cose.

Le cause sono tante.

In alcuni casi è mala fede, connivenza, difesa di interessi di parte e precostituiti. Esistono lobby, cordate, schieramenti sociali ed economici che operano per gestire il consenso e controllare i «posti di comando». Sono fenomeni vecchi come il mondo.

Ma c’è anche altro.

C’è la rete delle amicizie e dei rapporti personali che prevale sul senso critico. C’è il «è un bravo ragazzo, va aiutato». C’è la fuffa comunicativa che nasconde o annega l’analisi oggettiva dei fatti e dei risultati. C’è la connivenza tra il «tu sostieni me che io sostengo te». C’è la «conventio ad excludendum» per cui chi ha idee valide e forti che possono mettere in ombra o in discussione la classe dirigente «in charge» va silenziato, circoscritto, ignorato, messo sotto traccia o magari usato, ma solo «dietro le quinte».

La verità è che troppo spesso manca il vero Senso dello Stato, il vero Spirito di Servizio. Sono quattro «S maiuscole» che sono dimenticate in una continua promozione di sè e difesa del proprio ruolo e della propria immagine, della rete di relazioni controllate, del proprio cerchio di influenza.

La colpa non è di chi si comporta così. La colpa è di chi non ha la capacità di riconoscere questi comportamenti, di chi li accetta e li giustifica. La colpa è di chi confonde lo spirito di amicizia e cortesia con la valutazione delle responsabilità e dei risultati. La colpa è di chi non ha il coraggio di mettere prima la «res pubblica» rispetto al rapporto personale e al «saper vivere».

È questo il male di fondo che ci attanaglia, che ci condanna e inchioda. Ed è una responsabilità innanzi tutto degli influencers, di coloro che dovrebbero avere il coraggio di «togliere il fondo tinta» e mostrare la faccia vera delle persone e delle cose, e che invece, in buona o cattiva fede, non lo fanno, lasciando che ci si continui ad illudere di vedere «grandiosi destini futuri» che esistono solo nell’immaginario di chi li declama, ma non certo nel cuore e nella sostanza della nostra vita.

So bene che il mio ragionamento non è di moda. Deprime, scontenta, va contro il «mainstream». La critica oggi viene spesso volutamente e artatamente confusa con la polemica ed è così facilmente liquidata come distruttiva, inutile, invidiosa.

Ma questo è proprio il segno del declino che stiamo vivendo a livello culturale e sociale prima ancora che economico.

O riusciamo a recuperare il senso alto del bene comune, che viene prima e sopra tutto il resto, oppure siamo condannati ad una inarrestabile spirale al ribasso che travolgerà la rotta della nostra fragile “nave senza nocchiere in gran tempesta”. Non ci salverà il «fondo tinta» né un superficiale «volemose bene». Ci salverà l’amore del bene comune che viene prima del singolo, dell’appartenenza o dell’apparenza.

È su questi temi che si «parrà la [nostra] nobilitate». C’è ne renderemo mai conto?

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