Era un tranquillo mercoledì di un giorno qualunque, trent’anni fa, quello in cui per il nostro Paese fu scritto, in realtà, un pezzo di storia. Una rivoluzione da cui non siamo più tornati indietro: con i pregi e i difetti che questo comporta, persino contro ogni digital divide.
Perché qui parliamo di Internet: dell’Internet «italiano». Di quel 30 aprile 1986 in cui, grazie al lavoro di Stefano Trumpy, Luciano Lenzini e Antonio Blasco Bonito, al Cnuce di Pisa, l’Italia si collegò per la prima volta ad Arpanet. «Mi viene da sorridere quando rileggo la lettera con la quale, il 12 maggio dell’86, avvisavo il presidente del Cnr che eravamo in rete», ha detto di recente Luciano Lenzini. «Chiudeva con un P.S.: “Allego copia del comunicato stampa il cui contenuto deve essere concordato con Telespazio e Italcable”. Non so se sia partito: di certo non partorì grande effetto».
L’impressione, infatti, è che nessuno o quasi si sia accorto della rivoluzione di cui si era accesa la prima fiammella. Anche negli archivi, digitali e non, delle maggiori testate, niente titoloni: neanche «titoli» particolari invero, a rilevare con efficacia il fatto. «Allora non potevamo comprendere». Come in ogni grande rivoluzione, d’altronde.
Come in ogni «crisi» – cambiamento, strappo col passato, innovazione che fa storia – le cose prima si vivono, poi si elaborano e si capiscono. Forse. D’altronde qui in ballo c’è Internet: che le nostre vite le ha cambiate per sempre. Questo, forse, l’abbiamo anche capito. Siamo certi però di aver capito Internet?
Internet ormai non solo fa parte di noi: siamo noi. È l’orizzonte concettuale che ci domina, nel quale siamo «gettati», nati – nativi digitali, si dice non a caso – in cui viviamo e attraverso cui pensiamo, agiamo, ci esprimiamo. Internet è la nostra epoca, l’essenza di chi siamo noi oggi. Parametro che sviluppa e dà forma ai nostri pensieri e valori: su sé e su gli altri, sugli eventi di oggi, di ieri o di domani. Sul «tempo», passato, presente e futuro, e su come lo viviamo. Parametro che forma la nostra identità, metro e misura del suo senso per noi: e al contempo medium, piattaforma che esprime e diffonde questo nostro «chi siamo», «che ci stiamo a fare qui», in questo mondo», «dove vogliamo andare», dove saremo domani. Con quella velocità esponenziale e virale, mai vista prima, che solo la potenza delle nuove interconnessioni può garantire.
Internet: lo spazio del nostro tempo. Viviamo nella «età della scienza e della tecnica» – diceva e prediceva il filosofo tedesco Martin Heidegger già un secolo fa. «La funzione della filosofia fino ad oggi è stata ereditata dalle scienze», scriveva in Ormai solo un dio ci può salvare. «L’uomo è collocato, impegnato e provocato da una potenza che diviene palese nell’essenziarsi della tecnica e che egli stesso non signoreggia». Traduzione? Semplice. Non è forse vero che, a farla da padrone nell’orientare le nostre preferenze, decisioni, abitudini, stili di vita, sono il sapere scientifico, la tecnologia? Anche nella quotidianità, che cosa scandisce di più le nostre giornate di tv e radio, computer e Internet? O i cellulari di ultima generazione, i device all’ultima moda, email, notifiche social e messaggini di App sempre più incessanti da cui scegliamo di farci seguire ovunque? Per non parlare delle «cose», ormai innervate di vita propria e altra rispetto a noi, ma che con noi interagiscono, negli scenari che si aprono fra Internet Of Things e Artificial Intelligence.
Internet spazio del nostro tempo, dunque, il nostro spazio: noi stessi. Nuovo cromosoma del nostro DNA, decisivo per la costruzione della nostra identità spirituale e relazionale, per i nostri pensieri e parole. Internet anche, si è detto, medium, piattaforma tramite cui pensiamo, agiamo, siamo. In una sorta di circolo, dove un polo alimenta l’altro: dove più stiamo più siamo, più stiamo e restiamo entro certi modi di esprimerci e costruirci le nostre belle scale di valori, più siamo quelle scale di valori, più ci identifichiamo in esse. Un circolo virtuoso, si direbbe: forse. A patto che, come in tutte le umane cose, qualcosa non s’inceppi nella ruota: e non ci si inizi a chiedere – o magari a dire, senza neppure porsi la domanda – se sia venuto prima l’uomo o la gallina. Con risposte potenzialmente pericolose.
Chiediamocelo subito, allora. Che cosa viene prima? La nostra presunta «identità oggettiva», di esseri umani sempre uguali nello spazio e nel tempo, o un “semplice” mezzo espressivo che, però, può diventare geneticamente decisivo per l’identità stessa dell’human being? Internet, insomma, è specchio dell’uomo o responsabile dei nostri vizi e virtù? Strumento, che può far del bene o del male in base all’uso che se ne fa, o entità che ci governa, e ci rende buoni o cattivi a seconda che «lui» sia buono o cattivo?
In gioco c’è la risposta al quesito fondamentale. 30 anni di Internet: come, ma soprattutto fino a che punto hanno cambiato noi e la nostra vita? Perché, che ci abbiano cambiati, è ovvio. Ne siamo però stati trasfigurati, nel bene o nel male? Ci hanno resi più intelligenti, più stupidi? O forse, più semplicemente, hanno influenzato e amplificato, talora positivamente talaltra negativamente, aspetti già da sempre parte di noi – e la colpa non è di Internet ma nostra?
Correva l’anno 2009 quando nasceva il progetto «Internet For Peace – Nobel 2010 Candidate»: la Rete candidata ufficialmente al Premio Nobel per la Pace. Un’idea creata e sostenuta da Wired Italia e dal suo allora direttore Riccardo Luna, che definiva Internet «una grande community in cui uomini e donne di tutte le nazionalità e di qualsiasi religione riescono a comunicare, a solidarizzare e a diffondere, contro ogni barriera, una nuova cultura di collaborazione e condivisione della conoscenza. La prima arma di costruzione di massa», continuava, «in grado di abbattere l’odio e il conflitto per propagare la democrazia e la pace. Un’arma di speranza globale».
Uno «strumento di democrazia fruibile da tutti, in grado di veicolare messaggi di solidarietà e civiltà». Uno strumento sì, dunque, ma «buono in sé», verrebbe da concludere: dato il potenziale d’efficacia delle sue virtù anche rispetto ai suoi possibili difetti. «Ecco perché Internet è strumento di pace», si diceva d’altronde chiaro e tondo sul Manifesto del progetto. «Ecco perché chiunque lo usi può diffondere e far germogliare i semi della non-violenza».
Io stessa d’altronde ero accanita sostenitrice dell’iniziativa: che rilanciavo e diffondevo a ogni piè sospinto. «Viviamo nell’epoca della knowledge economy, ove il valore si crea a partire dall’uomo, dal capitale umano», dichiaravo all’epoca in un’intervista a Raffaello Setten. «Un patrimonio che si moltiplica tanto più esponenzialmente, quanto più sia condiviso nelle infinite interconnessioni della Rete, e dove proprio questa condivisione, moltiplicazione di conoscenza, sono ricchezza – sociale, economica e solidale. In una tale nuova sharing linked economy, Internet e la Rete sono lo strumento ideale per cambiare il mondo». Addirittura di «vera e-democracy» mi spingevo a parlare: di quella «libertà e democrazia partecipata e condivisa che solo il web sa dare».
«Se ben utilizzato», aggiungevo però già allora. Anche se poi, invero, continuavo a «unirmi all’appello “Libera Rete in Libero Stato”, contro ogni censura del web». La Rete, ritenevo, «ha già in sé gli anticorpi per una propria auto-regolamentazione. In quanto autentica democrazia, non può esistere senza regole: sarebbe anarchia, non democrazia». Internet, strumento sì, ma di «dialogo senza frontiere».
Ne ero convinta io, lo eravamo tutti. Molti lo sono forse ancora: e fanno pure bene a esserlo – in un senso forse un po’ diverso. Sì, perché che Internet fosse un medium, che la Rete fosse strumento, mi era chiaro anche un decennio fa. Che però forse andasse compreso meglio il significato della sua natura di tool – dove il solo tool decisivo rimane la testa, il buon senso – è altrettanto palese.
Lontani oggi da comprensibili ma facili ed entusiastici innamoramenti, ci rendiamo conto che qualcosa è cambiato. O forse, semplicemente, ci rendiamo conto. Abbiamo una consapevolezza diversa, un’esperienza più matura di Internet: nel bene e nel male. Abbiamo ascoltato un Tim Berners-Lee – niente meno che il papà del Web – dichiarare distrutte le speranze del web: dai Troll, dallo Hate Speech, dal Cyberbullismo, da quella violenza online più o meno forte che, ormai da anni, ha portato me per prima a gridare Don’t Feed The Troll, #StopWebViolence – hashtag che mi onoro di aver reso di tendenza. «Avevo sperato in un web in grado di dare alla gente strumenti per rompere le barriere nazionali e per favorire un progresso della conoscenza», dichiarava Berners-Lee già due anni fa, gridando il suo «disgusto» contro i troll. «È assai sorprendente per me che persone cresciute in modo normale diventino molto polarizzate nelle loro opinioni, diventando portatrici di odio invece che di amore».
I dati d’altronde parlano chiaro. Il 72% dei teenager è stato vittima di cyber-bullismo e addirittura il 90% di public shame, di «svergognamento online», di lapidazione sulla pubblica piazza della Rete. Con un 15% che inizia a marinare la scuola, dopo simili fatti. Persino l’Europa si è mossa, con il progetto «Young People Combating Hate Speech Online» voluto dal Consiglio Europeo.
«I troll stanno vincendo la battaglia per Internet», dichiarava fa al Washington Post Ellen Pao, già CEO di Reddit: «Sono stata travolta da uno dei maggiori attacchi di troll nella storia». Il vero problema? «Internet è nato come un bastione di difesa della libertà di espressione. Ha incoraggiato le relazioni, il dialogo, lo scambio d’idee anche diverse. Col passare degli anni, però, questa stessa apertura ha facilitato manifestazioni, esplosioni anche di odio tra le persone». Un passaggio dal confronto allo scontro, che resta tuttora una sfida. Uno scivolamento – ecco il rischio – dalla democrazia alla demagogia, dalla libertà all’anarchia: dal potere di tutti per tutti – nel concreto, di uno o più per tutti – a quello di tutti su tutti – di uno o più su tutti. Dispotismo, totalitarismo. Esattamente ciò che anni fa ci sembrava impossibile, quando definivamo la Rete «autentica democrazia», con «in sé già gli anticorpi» per auto-regolamentarsi. Un Internet too big to fail, troppo democratico in sé, «buono in sé», da non poter «esistere senza regole», perché sarebbe «anarchia, non democrazia».
Impensabile. Anzi no.
«The trolls are winning», concludeva disillusa la Pao. Qui però non è solo questione di troll.
A comandare c’è l’«Algoritmo, un dio dietro tutte le cose», scriveva L’Espresso all’alba del 2016. «Cosa leggere on line. Quale dipendente assumere. A chi destinare finanziamenti. Qual è il partner giusto per noi. Oggi a decidere è sempre più un algoritmo. In nome dell’efficienza e dell’imparzialità». Dietro ancora ci sono i giganti della rete, il «vincitore pigliatutto», ribadisce ancora Berners-Lee alludendo a quei «pochi» che usano la massa di dati che Internet rende disponibili, contro ogni presunta privacy, «per indicizzare le nostre ricerche (Google), guidarci nelle scelte di consumo (Amazon) o decidere a quali contenuti dovremmo essere esposti (Facebook)». Il fato è che «manca la responsabilità».
«Figli della cultura araba», questi algoritmi e chi se ne serve, sono il «sogno realizzato dei matematici: dominare. Controllare tutto, sentimenti e abissi dell’anima inclusi».
Social Media Abyss è giustappunto il titolo del nuovo libro, in uscita per EGEA a fine maggio, di Geert Lovink, «media theorist & net critic» come si definisce sul suo profilo Twitter e di cui han fatto scalpore le interviste rilasciate di recente anche in Italia – puoi trovare tracce digitali di meravigliose conversazioni proseguite per giorni, che di chiudersi proprio non volevano saperne, qui, qui e qui. «La vera democrazia? Non passa dai social», dice a chiare lettere. Viviamo nell’era del platform capitalism, il capitalismo delle piattaforme: il problema, dunque, va molto oltre i singoli social, che detengono anzi solo una piccola parte della massa dei dati. Il problema è Internet: e l’uso che se ne fa. Al centro dell’«abisso», infatti, è proprio l’orizzonte Internet, passato da spazio illimitato un mondo di social e App sempre a portata di mano, dove i giganti dell’IT hanno perso la loro innocenza. In questa «Realpolitik», la Rete appare «un morto da salvare», un qualcosa che ieri era «ricco, diverso, libero», «che ho amato – scrive Hossein Derakhshan – e per cui ho passato anni in una prigione iraniana», e che oggi invece sembra un Dead-Man-Walking. Di «era del populismo tecnologico» parla Evgeny Morozov, reduce dal suo ennesimo successo «Silicon Valley. I signori del silicio»: «E chi critica è subito tacciato di luddismo». «Social media are a trap», incalza Zygmunt Bauman. E potremmo proseguire all’infinito.
«Internet non salverà il mondo»: è questa dunque la conclusione cui dobbiamo giungere, sulla scorta ancora di Morozov, partiti com’eravamo dall’esatto contrario, da un «Internet For Peace – Nobel 2010 Candidate»? Dobbiamo farci una ragione del «Lato oscuro della libertà di Internet», di quella che solo nella migliore delle ipotesi possiamo chiamare «Ingenuità della Rete»?
E qui torniamo alla domanda di partenza. Internet: angelo o demonio? Realtà buona in sé o entità tecnocratica e tecno-dispotica dal potere ormai totalitario? E dunque, in generale, spirito buono o cattivo in sé, determinante nel rendere altrettanto buoni o cattivi noi, la nostra società, la nostra realtà politica, economica, culturale?
No. Intenet non è a nostro avviso nulla di tutto questo. E, se ci ha cambiati, non dipende che dal fatto di essere lo strumento, il medium – questo sì – più proprio dell’uomo oggi sul piano concettuale, valoriale, espressivo. Internet è uno strumento, buono o cattivo non in sé ma in base all’uso che se ne fa. Come un martello, che possiamo utilizzare bene per attaccare un chiodo, o male, illecitamente, per darlo in testa a qualcuno. Spesso purtroppo se n’è fatto un pessimo uso: sul piano economico, politico, sociale, culturale. E facile è così correre il rischio della caduta nell’antidemocrazia, nella demagogia, nel dispotismo, in un controllo totalitario della Rete – dove «Rete» è al contempo soggetto e oggetto della frase.
Ciò non significa che vada demonizzato – come prima non era forse da beatificare. Né che ci abbia reso più buoni prima – o al contrario ora trasfiguri gli esseri umani in mostri. Gli uomini – sempre gli stessi sono: nella loro drammatica fallibilità e finitezza, nella sterminatezza dei loro vizi e virtù. La Rete certo amplifica. È specchio potente, più di ogni altro del passato, della nostra identità, dei nostri tempi: non però in sé responsabile di quelle virtù e vizi.
Se le cose stanno cosi, allora, non solo Internet si può, si deve, ancora salvare: ma ci può salvare. La Rete può cioè autenticamente essere strumento per creare un regno di libertà e democrazia: basta usarla bene. #SocialEducation, dico spesso io: necessità di una nuova «educazione digitale», una nuova «educazione civica digitale» come urgenza non più rinviabile.
I Mercati possono ancora essere «Conversazioni»: Cluetrain Manifesto docet ancora, o può farlo. Internet può ancora essere un fertile e costante colloquio: quel «colloquio» che noi stessi siamo, come poetava Friedrich Hölderlin con i suoi versi: «… Da quando siamo un colloquio e possiamo ascoltarci l’un l’altro». «Il colloquio, con la sua unità, sorregge il nostro esserci», incalzava Heidegger: quel colloquio, quel dialogo che noi siamo per DNA e che oggi più che mai può esprimersi al meglio nel medium di Internet, sviluppando ogni sua potenzialità e ricchezza nelle infinite e «dialoganti» interconnessioni della Rete. Purché impariamo a usarlo bene. Con la testa.
«Nessuna cosa sia dove la Parola manca», scriveva Stefan George. La «Parola» che qui non deve mancare, l’unica che può «salvare» Internet e con ciò noi stessi, noi-nella-Rete, è solo una: la Parola Utile. Che salva. Un’apertura alla Rete, cioè, un dialogo della Rete con la Rete, improntato a quella che oggi è in generale, in tempi di crisi, la sola possibile exit-strategy: la Cura, la condivisione più totale di sé al servizio dell’altro, a 360 gradi. Il #SocialCare, il concetto che spesso riassumo nel «Vuoi vendere? Aiuta!», nel Sell? Help!, #SellHelp: l’#HelpMarketing – che non vale certo solo per il marketing, ma estende il concetto di «aiuto» a parola d’ordine necessaria nel nostro attuale approccio a Internet, nel nostro vivere oggi in Rete.
#YouInternet, Internet-Utile-Per-Te: ecco la «Parola che salva», la «Parola-Utile-Per-Te» che salva in quanto Ama, Aiuta. Che non solo pone al centro la Rete e il proprio network in Rete, ma se ne predispone al servizio, innervando così di «Vita Nova» un mondo che tanto ha cambiato noi e la nostra vita, di più la cambierà ancora. Tanto vale farsela cambiare in meglio.
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