Quella volta che i bot fecero saltare la pagina Facebook di ASOS

Gestire una pagina social di un brand grande e famoso non è semplice, specialmente quando il “brand grande e famoso” fornisce un servizio come la vendita online di abbigliamento e accessori. Questo significa che, a ogni ora del giorno e della notte, arrivano commenti di utenti che chiedono come veste quella maglia, se quel vestito è grande o piccolo, che fine abbia fatto il proprio ordine o a che punto sia un reso.

Data l’enorme mole di commenti, una delle strategie possibili è quella di ricorrere all’intelligenza artificiale, che riesca a interpretare le richieste degli utenti e fornire una risposta simile a quella umana. Insomma, utilizzare un bot che risponda agli utenti in modo rapido, incessante e, possibilmente, anche in modo efficiente.

Ora, non sempre quella dei bot si rivela una scelta azzeccata: tempo fa fece scalpore il caso di Bank of America che, su Twitter, divenne il bersaglio di un trollaggio lungo un weekend da parte degli utenti che, scoperto il bot, si dilettarono a farlo letteralmente impazzire per il divertimento generale, esponendo uno degli istituti di credito più importanti degli Stati Uniti al pubblico ludibrio.

In quel caso, però si era trattato di un trolling nato quasi per caso, per via di una serie di fortunate – o sfortunate, dipende dal punto di vista – circostanze. Cosa succede quando, invece, un utente si fa avanti su una pagina social con un problema e una richiesta precisi e finisce per trovarsi davanti a una serie di risposte “pre-fabbricate” che, oltre a non essergli utili, hanno anche il potere di farlo inferocire?

È quello che è accaduto qualche tempo fa sulla pagina Facebook di ASOS, colosso britannico del retailer online, che vende in tutto il mondo abbigliamento, calzature e accessori per un pubblico giovane. Succede che Nick Paterniti, un cliente australiano di ASOS, piomba sulla pagina Facebook ufficiale dell’azienda chiedendo lumi a proposito di un reso di merce dal valore di 1200 dollari che a “quanto pare si è perso per strada”: insomma, il pacco non è tornato ad ASOS e i soldi non sono tornati da Paterniti e, a suo dire, le discussioni via mail con il customer care per cercare di risolvere il problema si sono rivelate completamente infruttuose.

Così Paterniti, con una comprensibile ansia mista a un filo di rabbia preventiva, scrive su Facebook aspettandosi un ulteriore aiuto. Le cose però non vanno come sperato perché Paterniti, dopo aver spiegato di aver già fornito tutti i dati necessari, riceve da parte di “Ashley ASOS” l’ennesima richiesta a inviare il numero di spedizione e gli estremi dell’ordine.

Una risposta che, insieme ai toni esausti di Paterniti, attira l’attenzione degli altri utenti. Ed è a questo punto che si scatena il delirio: dopo “Ashley” intervengono nell’ordine “Steve”, “Louis” e “Danielle”, tutti con una risposta generica pre-impostata in cui chiedono a Paterniti di fornire il numero di spedizione e altri dati relativi al suo ordine e, allo stesso tempo, rispondono in modo incoerente agli altri utenti che si mostrano solidali con l’utente, incuriositi dalla piega che stanno prendendo i fatti.

Il risultato? Questo:

asos facebook bot
[Via Mashable]
e ancora:

asos facebook bot
[Via Mashable]

A quel punto gli utenti passano al trollaggio aperto. E le risposte automatiche continuano a fioccare a casaccio a ogni commento pubblicato nel thread:

asos facebook bot
[Via Mashable]

asos facebook bot
[Via Mashable]
asos facebook bot
[Via Mashable]

La vicenda, riportata da Mashable, si conclude con Paterniti che riesce a chiudere felicemente la pratica del suo reso e a vedersi restituito il proprio denaro. Ma, benché risalga a qualche mese fa, questa storia è utile a fare qualche considerazione sull’uso dei bot nella gestione di pagine social nate con l’intento di fungere anche da customer care:

  1.  I bot possono aiutarti a gestire un grande volume di commenti sulla tua pagina Facebook o Twitter, ma lasciare le tue pagine social senza un presidio “umano” non è mai una grande idea. Ovviamente non si può pretendere che il social media manager – o un intero team social – sia presenti e attivi 24/7 ma, come già evidenziato dai precedenti casi tra cui quello di Bank of America, il team social deve essere in grado di intervenire tempestivamente quando le cose sfuggono di mano. Per quanto un bot possa essere bene addestrato, le variabili in gioco sono troppe per poter pensare di delegare un lavoro tanto delicato all’intelligenza artificiale.
  2. Fai in modo che l’intervento umano sia immediatamente riconosciuto come tale. Ammettiamolo, leggendo certe risposte nel botta e risposta tra ASOS e gli utenti il dubbio è venuto anche a noi: risposte umane o risposte da bot? Sapere di avere a che fare un con un computer può indisporre gli utenti, ma non sapere se si sta avendo a che fare con una persona o con un bot è ancora peggio: addestrare il proprio team social a interagire con i propri utenti in modo troppo “impostato”, utilizzando risposte standard sempre uguali e con le medesime formule, potrebbe confondere gli utenti al punto da percepire l’intera pagina come completamente automatizzata. Cosa che ci porta direttamente al punto 3:
  3. Se usi i bot dichiaralo subito. Non c’è nulla di male nell’usare i bot. Non è “immorale” e non è “barare”. Ma, per evitare spiacevoli incidenti come quello di ASOS, potrebbe essere una buona idea chiarire quando si tratta di risposte automatizzate e quando, invece, si tratta di pura interazione umana. Specialmente quando le cose si fanno complicate e i tuoi utenti cominciano a pensare che dall’altra parte del monitor non ci sia nessuno.

Lesson Learned: L’interazione quotidiana con i tuoi utenti non può essere considerata “routine”, per lo meno non al punto di delegarla interamente a un bot. 

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