Cercasi storie disperatamente

Lo storytelling è ormai sulla bocca di tutti. Lo citiamo di continuo, al punto che mi riesce difficile pensare possa essere esistita un’epoca in cui questo termine non veniva usato. Devo fare uno sforzo, a volte, per tornare indietro nel tempo a qualche ricordo in bianco e nero, che era già storytelling, solo che eravamo impegnati a vivere e non se ne parlava. Non almeno in modo tecnico o sistematico. Forse perché non c’era ancora l’urgenza di riappropriarsi del senso della narrazione, urgenza che ha preso piede con il progressivo affermarsi  del mondo globalizzato e l’indebolirsi della centralità dell’uomo, praticamente digerito dal flusso delle informazioni. Prima di internet, per capirci, il mondo c’era, esisteva e scriveva i suoi capitoli. Si nasceva, si maturava e si moriva. Ma, soprattutto, il contesto attorno non era così invasivo da frammentare le nostre vite con continue incursioni, parentesi, incidentali, disattenzioni; non era così pressante da spingerci a una distanza di protezione e a uno studio così nevrotico dell’atto narrativo.

A cosa si deve, quindi  la retorica esplosa dello storytelling a tutti i costi?

In primo luogo c’è una sorta di resistenza alla paura di scomparire nell’indistinto. I social network costringono gli utenti a comportamenti di consumo e interazione piuttosto codificati e riconoscibili. Il voyeurismo non lascia scampo, da un lato regala una finestra da cui spiare, dall’altro richiama paragoni, costringe a continui bilanci e mette alle strette ognuno di noi con i suoi desideri più profondi. La rivelazione del mondo, reso finalmente visibile da così tante angolazioni, produce nelle persone un’esaltazione senza precedenti delle proprie aspirazioni, offre l’accesso a un altro livello dell’affermazione di sé che non è più la tensione a un modello da venerare come un santino, ma la possibilità di conquistarsi uno spazio. Non c’è persona che conosco, qualsiasi lavoro faccia, che non avverta dentro di sé l’opportunità di una rivoluzione che permette a tutti di giocarsi la propria partita, affidandosi al talento creativo, alle idee, al carisma. Al pubblico. Poi, c’è il bisogno di sintetizzare in storie riconoscibili tutto ciò che ci circonda. Per imparare a raccontarsi, cosa c’è di meglio di una grande palestra come il mondo digitale? YouTube da solo carica 300 ore di video al minuto per 432.000 ore al giorno e per poco più di 2 miliardi di video in un anno. Ognuno ha a disposizione molto più dei suoi 15 minuti di warholiana memoria e, di diritto, entra a far parte di un futuro orwelliano in cui il pensiero più pressante è la svolta, la notorietà, il riconoscimento. A tutti i livelli, non facciamo finta che non sia così. Quindi, per imparare la sintassi del racconto è necessario uscire dalla nostalgica memoria dell’album di famiglia (che richiedeva i tempi meditati e intimisti della riflessione e del romanzo) per entrare in una dimensione di immagini e video prodotti e consumati nello spazio di pochi secondi, e in un infinito palinsesto di caratterizzato dal linguaggio veloce e aneddotico del racconto.

Ed ecco. Non siamo più nel Triassico, quando entusiasti scoprivamo la pervasività del contenuto digitale e l’ascesa incredibile di alcuni elementi come il video, ma entriamo nella seconda fase, l’epoca Giurassica dei media digitali, in cui ci si chiede in che modo questa ipnosi creativa di massa possa dare dei risultati. E allora, teoremi e trattati, interpretazioni sociologiche e ricette su come scrivere, produrre, distribuire video creati ad hoc per generare flusso e audience. Aspettando il Cretaceo, già annunciato da Mark Zuckerberg, Susan Wojcicki, Evan Spiegel, Jack Dorsey, David Karp, in cui il web si popolerà di tv organizzate in veri e propri canali. Ms YouTube ha già lanciato la tv a pagamento in USA, Zuckerberg punta tutto su Facebook Stories e su Instagram Stories, Snapchat si è quotata in borsa e vola, David Karp reclama il suo posto mettendo in risalto la vocazione innovativa di Tumblr. Un mondo che sembra venuto fuori dalla penna di J.P.Ballard, ma che lascia aperti spiragli di scommessa su cosa potrà avvenire. Sì, perché se è chiara la forza del broadcasting, d’altro canto non possiamo pensare di consumare tutta la vita tra storielle e vezzi di ogni individuo sulla faccia della terra che abbia in mente di spararsi una diretta web e postare i ritratti del suo Ego in multi-visione come nulla fosse. Il Cretaceo sarà da un’altra parte, sarà diverso.

Torniamo, allora, allo storytelling. Abbiamo chiaro che esiste una componente esistenziale e identitaria, nel pericolo delle nostre vite di venire appiattite in vaste praterie di noia interrotte solo da momenti di share e da istanti di estasi televisiva. Però, per i contenuti c’è ancora strada da fare. Siamo nel pieno di una fase sperimentale, ragioniamo sui tormentoni, sui meme, sull’influencing, sui clip divertenti in forma di parodia. Siamo incastrati nell’epoca dei talent, che va bene, ma bisogna andare oltre. Intanto i social continuano nella loro funzione di vivaio creativo dell’umana specie.

Nel numero 3 di luglio-agosto 2015 del mio magazine digitale The Circle, auto-prodotto (e gratuito) dedicato a linguaggi della contemporaneità, trattavo l’argomento della content revolution. In quel periodo mi occupai di Just Some Motion, l’ormai noto ballerino del tormentone TIM. Lo avevo notato sul web. Elettroswing, musica di Parov Stelar, bianco e nero, ottima coreografia (quasi ipnotica), setting particolare. JSM ha aperto il canale nel 2012, con 54 milioni di visualizzazioni complessive e 170.000 iscritti. Il video in questione, All Night è stato pubblicato nel 2013 ed è arrivato oltre i 37 milioni di viewers.

Eppure, mi ero reso conto che era in corso una specie di battaglia. Un challenge. Dall’altra parte c’era un altro ballerino, Take Some Crime. Elettroswing. Musiche di Parov Stelar, stessa storia. Video di una performance e anche qui milioni di click. Take Some Crime ha aperto il canale nel 2006, ha totalizzato oltre 100 milioni di visualizzazioni con 190.000 iscritti. Il suo Catgroove, su base di Parov Stelar, è stato caricato nel 2010 e viaggia verso i 39 milioni di viewers.

Se dovessi oggi scegliere una storia da raccontare, sceglierei questa specie di confronto che, anche se mai dichiarato, ha creato lunghe code di emuli sul web. Due ottimi esecutori e un confronto a colpi di pubblico che andrà avanti nel tempo, credo ormai senza una fine certa. Il fatto è che la palestra delle idee sui canali digitali, deve necessariamente esprimersi per mezzo della sintesi, deve isolare un climax, spararlo sul web fino a saturazione del trend e poi passare altrove. Il tempo dei contenuti, invece, ha bisogno di storie lunghe e di approfondimenti, di plot strutturati. Per me, che sono un vecchio umanista che proviene da una cultura classica, la storia meriterebbe di conoscere meglio i due protagonisti, di stabilire un’ideale rimando l’uno all’altro fino a comprendere un fenomeno nella sua completezza, quello della società performativa e dell’esibizione di sé come conditio sine qua non di esistenza. Del resto Zuckerberg, parlando della trasformazione dell’algoritmo dei feed news diceva che avrebbero dato più spazio ai video lunghi. Perché, spesso, le storie sono così, hanno bisogno di sviluppi, intrecci, trame. Ora, però, siamo nella fase frenetica del videoclip, soprattutto se il contenuto si classifica ancora oggi come commercial. Creiamo pubblicità, spesso ignorando il nucleo più interessante dei fenomeni che raccontiamo. Noi, come analisti o come marketer abbiamo una grande responsabilità perché, fosse per il mondo che stiamo creando dal punto di vista dello storytelling, oggi Salinger starebbe a vendere il castagnaccio agli angoli delle strade. Noi, invece, siamo come Caronte, traghettiamo la cultura nella insidiose acque dei media digitali e della loro vorace metabolizzazione in prodotti istantanei e consumabili (senza indigestioni, si spera).  Noi, Salinger lo prendiamo, lo spezzettiamo e del Giovane Holen ci facciamo una serie di corti.

In attesa, però, che si cominci seriamente a parlare di Storie e che questo momento di saturazione dell’immaginario collettivo riprenda le forme di una narrazione di senso.

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Laureato in Lettere Moderne, specializzato in management della cultura e progettazione europea, collabora con università, enti pubblici e imprese nel settore dell'innovazione e sviluppo sostenibile. Ricercatore e manager attento al cambiamento del mondo contemporaneo ha maturato competenze in diversi settori, dalle scienze sociali alla digital economy. È il fondatore della rete The Next Stop dedicata all'incontro tra il management culturale e l'innovazione, è fondatore di Lateral Training think tank dedicato alla consulenza sui temi del business coaching, corporate storytelling e marketing digitale. È trainer e formatore professionista, sia nell'ambito comportamentale che in quello del design di nuovi processi organizzativi. È presidente dell'Associazione Italiana Sharing Economy e Direttore Scientifico del primo festival di settore, il Ferrara Sharing Festival. È in via di pubblicazione il libro per Franco Angeli Corporate Story Design, manuale per la progettazione e gestione di storie d'impresa. È web designer e senior content marketer per passione, curiosità, professione. Ama leggere, scrivere, vedere film in quantità industriale e occuparsi di nuove tendenze e linguaggi dell'ambiente digitale. Non disdegna gli studi sulla gamefication e il game design. Ha fondato diverse riviste, Event Mag, Limemagazine, The Circle (ancora in pubblicazione). Dal punto di vista tecnico è certificato come: esperto di epublishing Amazon Kindle, esperto di newsstand application design Apple-iTunes store ed esperto di sistemi WooCommerce per wordpress.

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