Il racconto d’una vita in poche righe (o in pochi caratteri)

Molto di rado, le parole appartengono al caso: tutte le nostre dichiarazioni, i nostri tentativi linguistici di dar senso alla presenza e alle relazioni sono, già da sé, un racconto. E questo vale anche sui social network

Immagine distribuita da Pixabay

L’uomo esiste unicamente nel racconto di sé, in ciò che egli sceglie di narrare all’altro. Ogni combinazione di parole – non sempre, ma per lo più – contiene una piccola storia, una sorta d’intreccio implicito che, più o meno consapevolmente, offriamo a chi ci ascolta o ci legge. Diversamente: la frase – o, meglio, l’atto linguistico quale elemento decisivo del discorso – è, in sé, la prolessi di ciò che speriamo accada o l’analessi – congrua o meno: di fatto, poco importa – di ciò che è accaduto e, con gioia o dolore, abbiamo bisogno di portare nella relazione. Molto di rado, le parole appartengono al caso; neppure nel linguaggio delle devianze, quello caratterizzato dall’insalata di parole o dall’apparente assenza di connessioni logiche, la narrazione occulta del tutto i volti dell’io narrante, sebbene di solito si pensi il contrario.

Alcuni studiosi propongono addirittura un’interpretazione paradossale e che ai più potrà sembrare scandalosa: sarebbe stato proprio un certo abuso del pensiero logico-filosofico a causare l’aumento delle psicopatologie. Louis A. Sass , docente di Psicologia Clinica presso la Graduate School of Applied and Professional Psychology della Rutgers University del New Jersey, è persuaso che il pensiero moderno, quello che separa l’io dalle cose, la res extensa dalla res cogitans, il fenomeno dal noumeno e che ha tra i principali esponenti Cartesio e Kant, abbia causato un incremento epidemiologico dei disturbi mentali (SASS, A. L., 1992, Madness and Modernism: Insanity in the Light of Modern Art, Literature and Thought, trad. it. di N. Graziani, 2013, Follia e modernità La pazzia alla luce dell’arte, della letteratura e del pensiero moderni, Raffaello Cortina Editore, Milano). Secondo questa teoria, infatti, l’eccessiva lontananza tra il soggetto e l’oggetto farebbe perdere equilibrio e stabilità all’uomo nello spazio-tempo, costringendolo ad una ricerca snervante.

In realtà, a pensarci bene, la scrittura dei social network non è affatto da meno, cioè non manca affatto di forza simbolico-narrativa, per la quale la combinazione di parole cui abbiamo accennato è un ‘mettere assieme’ dei fatti, anticipandoli (prolessi) o richiamandoli alla memoria (analessi). Nello stesso tempo, essa è la pura manifestazione d’uno stato d’animo, cui si sovrappone d’ufficio una forma che crediamo risulti gradita, accettabile, ma che può rivelare cocente disagio o tanta serenità. Sass, nel riportare la frase di un paziente schizofrenico, ci fa un omaggio prezioso agli effetti di un riesame di pragmatica del linguaggio: “Non solo mi piace andare a pesca, ma anche essere di peso a mio padre.” (Ibid., p. 167). In quest’affermazione dalla sintassi semplice, possiamo rintracciare immediatamente alcune componenti semantiche in virtù delle quali ogni nostra frase guadagna senso. Il primo oggetto d’analisi è costituito dal meccanismo di inferenza (ne abbiamo parlato in Genesi e diffusione delle fake news: inferenza, manipolazione, paradosso) col quale il parlante associa il piacere di andare a pesca con quello di essere di peso al padre. Tutti noi facciamo ampio uso delle deduzioni e dei nessi deduttivi per comunicare, pur facendolo, naturalmente e per lo più, in un processo di continuità. Un esempio banale tratto dal web potrebbe essere il seguente: ‘non è venuto neppure il senatore alla manifestazione contro (…)’. Ne ricaviamo che, probabilmente, molti altri non sono andati alla manifestazione, come potremmo anche dedurne un certo sarcasmo da parte dell’autore; e così via.

Mai trascurare o sottovalutare un tweet o un post solo per la loro brevità! Uno studio accurato del linguaggio della rete ci consentirebbe di avere una visione autentica dello stato di salute del paese

Insomma, il messaggio è questo: mai trascurare o sottovalutare un tweet o un post solo per la loro brevità! Uno studio accurato del linguaggio della rete ci consentirebbe di avere una visione autentica dello stato di salute del paese.

La differenza tra l’enunciazione del paziente in questione e il tweet esemplificativo, quella differenza che, per così dire, salta all’occhio è generata soprattutto dalla tangenzialità comunicativa introdotta dalla formula “non solo (…) ma anche”, che però – si badi bene! – non sempre è assente dal discorso di una persona sana. Di ‘sana’ tangenzialità abbiamo parlato in occasione dell’equivoco storico-digitale (Se un Christòs avesse detto “distruggete questi social e io in tre giorni li farò risorgere!), facendo notare, per esempio, che il contenuto dei commenti agli articoli pubblicati sulle pagine social delle grandi testate giornalistiche, nella maggior parte dei casi, è del tutto privo di pertinenza ed è basato sulla radicale impertinenza. Le differenze, pertanto, si mutano facilmente in analogie. Non possiamo di certo pensare che il simbolismo archetipico, che nel modulo di significato proposto da Sass è dominante e quasi soffocante del padre-totem (Cfr. FREUD, S., 1913, Totem und Tabu, trad. it. di C. Balducci, C. Galasi e D. Agostino, 2004, Totem e Tabù, in Freud Opere 1905-1921, Newton & Compton Editori, Roma, p. 608), manchi nei 280 caratteri di un tweet. Figuriamoci in un post di Facebook, che non ha limiti alfanumerici e iconografici!

È quanto mai opportuno, a questo punto, riformulare la tesi d’apertura in una forma agile e riassuntiva: tutte le nostre dichiarazioni, i nostri tentativi linguistici di dar senso alla presenza e alle relazioni sono, già da sé, un racconto e, se non lo sono in forma esplicita e diretta, lo sono indubbiamente in modo simbolico, poiché mettono assieme fatti, sensazioni, opinioni e desideri. La stessa combinazione delle parole esprime il simbolo, qualunque sia il medium di sussistenza e divulgazione. Σύμβολον (sỳmbolon) deriva da συμβάλλω (symbàllo), che significa proprio mettere insieme: è l’unione delle cose a determinare il riconoscimento e, di conseguenza, la comunicazione. Anticamente, infatti, in Grecia, come anche a Roma, possedere un contrassegno ‘simbolico’ voleva dire avere la prova di un accordo sacro e inviolabile. Le persone si scambiavano queste tessere proprio per testimoniarsi reciprocamente una certa lealtà relazionale, oltre che giuridica.

Tutte le nostre dichiarazioni, i nostri tentativi linguistici di dar senso alla presenza e alle relazioni sono, già da sé, un racconto e, se non lo sono in forma esplicita e diretta, lo sono indubbiamente in modo simbolico

Sulla base di questa tesi, proviamo a cercare qualche ‘prova’ nei documenti letterari che i grandi autori ci hanno donati, talora anche inconsapevolmente. Qualcosa di simile abbiamo fatto, quando abbiamo trattato il monologo di Marco Antonio tratto dal Giulio Cesare di Shakespeare (Un vero comunicatore non può fare a meno di Marco Antonio). Adesso, scegliamo due frammenti: l’incipit de I falsari di André Gide e una parte della XIV epistola delle “ad familiares” di Cicerone, da cui prendiamo le mosse. La scelta è dovuta al fatto che Cicerone e Gide, in apparenza, rappresentano due mondi lontani l’uno dall’altro e, a fortiori, dal web, anche se, com’è ovvio, avremmo potuto servirci di tanti altri spunti. Nel brano che proponiamo, Cicerone si rivolge alla moglie Terenzia e denuncia uno stato d’animo d’afflizione.

Accepi ab Aristocrito tres epistulas, quas ego lacrimis prope delevi; conficior enim maerore, mea Terentia, nec meae me miseriae magis excruciant quam tuae vestraeque, ego autem hoc miserior sum quam tu, quae es miserrima, quod ipsa calamitas communis est utriusque nostrum, sed culpa mea propria est [Ho ricevuto da Aristocrito tre lettere, che ho quasi cancellate con le lacrime; sono davvero distrutto, mia Terenzia, e le mie sventure non mi tormentano più delle tue e delle vostre. Io, d’altra parte, sono più disgraziato di te, che sei disgraziatissima, poiché la stessa sciagura è comune a entrambi, ma la colpa è proprio mia (M. TULLI CICERONIS, Epistulae ad familiares, LL. I-XIV, trad. nostra, a cura di D. R. Shackleton Bailey, 1988, Teubner, Stoccarda, p. 528).

Sulle prime, è difficile pensare che poche righe contengano l’autentico nucleo narrativo e semantico dell’intera epistola. Invece, basta seguire il climax dell’incipit del frammento suesposto per rendersene conto. Il primo focus è costituito da “tres epistulas”, oggetto di accipio (ho ricevuto) e, di conseguenza, informazione vera ed essenziale dell’enunciato. Il lettore motivato è costretto a interrogarsi sul contenuto di queste lettere, quasi fosse il mistero costitutivo della narrazione stessa. Alla designazione dell’oggetto seguono immediatamente un ablativo di mezzo (lacrimis, con le lacrime) e un perfetto (delevi, ho cancellato), che ci fanno entrare pienamente nella sofferta genitura del testo. L’oggetto iniziale, quell’oggetto che sembrava non avere precisa realtà, è ampliato in modo icastico, introdotto da una relativa (quas, che) che salda i significanti alle caratteristiche proprie e, in ciò stesso, li connota. Noi, così, siamo in grado di vedere limpidamente un uomo che versa lacrime sul foglio. L’elevazione psicologica si ha subito dopo, con conficior (sono distrutto), mediante cui prevale la funzione emotiva del linguaggio, e col vocativo “mea Terentia”, che trasferisce la sofferenza annunciata sul piano della relazione, oltre l’io narrante, accrescendone l’enfasi e dando materia alla funzione conativa. Cicerone aggiunge, a questo punto, il termine di paragone, e ci permette di conoscere una raffinatissima cifra stilistica (nec meae me miseriae magis excruciant quam tuae vestraeque, e le mie sventure non mi tormentano più delle tue e delle vostre); la qual cosa dà origine a un nuovo insieme semantico-narrativo: nuovo e che include i precedenti.

La sequenza è, a dir poco, incalzante:

  • oggetto (lettere), mezzo (lacrime) e verbo (ho cancellate): focus e connotazione;
  • verbo (sono distrutto): funzione emotiva;
  • invocazione (mia Terenzia): funzione conativa;
  • paragone (più delle tue e delle vostre): nuovo insieme semantico-narrativo.

In sostanza, in poche righe, abbiamo visto nascere e compiersi un capolavoro, che, non a caso, si conclude con “sed culpa mea propria est” (ma la colpa è proprio mia), cioè con un’avversativa (sed, ma) che ci riporta all’io narrante e restituisce forza simbolica alla personalizzazione dell’accepi (ho ricevuto) enfatico-iniziale.

Giunge così il momento di leggere ed esaminare l’incipit de I falsari, che può sconvolgere altrettanto drasticamente e inoppugnabilmente molte nostre convinzioni:

“Mi sembra di udire dei passi nel corridoio” si disse Bernard (GIDE, A., 1925, Les Faux Monnayeurs, trad. it. di O. Del Buono, 1950, I falsari, Bompiani, Milano, p. 5).

Il romanziere inizia la propria opera chiedendoci di rinunciare alla soggettività del protagonista a vantaggio della percezione o, in altri termini, della soggettività dell’udire. Si corre seriamente il rischio di non trovare più quelle parole, quei riferimenti e quei predicati tanto utili alla formulazione dell’atto linguistico e della sua natura regolativa. L’argomento della comunicazione, infatti, è, sulle prime, introdotto dalla materia del sembrare, ma, d’altra parte, esso si compie nel riferimento semantico-contestuale dell’udire. Senza il protagonismo di un soggetto che domini l’oggetto della comunicazione, l’esecuzione di qualsivoglia atto è meno che mai convenzionale; non si può certo pensare che gli oggetti della comunicazione siano capaci di autoregolazione. Qual è il significato della affermazione di dubbio di Bernard? Il caso vuole, anzitutto, che Bernard non sia un protagonista nell’intero corso della storia narrata da Gide, opera che non si avvale di veri e propri protagonisti.

“Io amo ciò che mi disgusta… a cominciare da me stesso, dal mio sporco individuo” (Ibid., p. 349).

Il dominio concettuale e che significa la trama è affidato unicamente alla stesura di un diario, il diario di Edouard, documento di espressione di una realtà data, dell’essere in un qui e ora. Il sembrare dell’inizio e dell’atto linguistico sancirebbe una sorta di straniamento per l’autore, qualora la materia della frase non si corredasse dei frammenti del puro sentire. Tuttavia, Bernard è solo in casa; il padre e il fratello maggiore sono al Palais, la madre è fuori, in visita, la sorella ad un concerto, Caloub, il fratello minore, è al convitto; all’assenza della famiglia segue per sostituzione la presenza di un riferimento di contrasto grazie al quale la solitudine di Bernard diviene la legittimità del sembrare e il consolidamento della soggettività dell’udire. Una volta letto il primo brano, ci avvediamo che la comunicazione raggiunge il lettore non già per mezzo d’un atto linguistico isolato e adeguatamente costruito, bensì attraverso la trasposizione metonimica dei significati dal piano dell’io narrante e delle sue persone narrative a quello del contesto, della realtà data e degli accadimenti. Ogni probabilità d’interpretazione, pertanto, nasce dall’improbabilità del protagonismo del protagonista. Tanto più che, dopo avere letto della solitudine di Bernard e dell’assenza della sua famiglia, cioè dopo avere conosciuto qualcosa del presunto io, siamo costretti a rinunciare a quanto ci è noto. Bernard, già all’interno della prima pagina dell’opera, legge una lettera inviata alla madre diciassette anni prima e scopre di essere figlio illegittimo. In pratica: Bernard non ha famiglia; la sua solitudine è qualcosa di più che una metafora, com’è qualcosa di più che una metafora l’assenza stessa della famiglia. Bernard lascerà prestissimo casa Profitendieu.

Se adesso riuniamo il frammento di Cicerone e quello di Gide, riusciamo a malapena a comporre quattro righe; eppure sono sufficienti a che ciascuno di noi, facendosene interprete, trovi in esse il simbolo in azione. Certo, è pur vero che tutto dipende dal modo in cui si scrive, ma è altrettanto vero che nessuna scrittura è del tutto priva di spinte simbolico-archetipiche.

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