Digital death

Il più grande mistero della vita: la morte. Il digitale è in grado di renderci immortali o può solo creare degli "zombie digitali" che conservano l'aspetto esteriore dell'essere umano ma non la sua essenza

Immagine distribuita da Flickr con licenza CCO

Nessuno crede alla propria morte o, il che è lo stesso, ciascuno è inconsciamente convinto della propria immortalità

                                                                     Sigmund Freud
Considerazioni attuali sulla guerra e la morte

Woody Allen lo dice in modo più spiritoso “non voglio raggiungere l’immortalità con il mio lavoro. Voglio arrivarci non morendo” ma il senso è analogo a quello espresso dal padre della psicoanalisi: sappiamo razionalmente che dobbiamo morire, ma desideriamo a tal punto essere immortali da credere di esserlo. E quando dobbiamo constatare che il triste mietitore giunge comunque alla nostra porta a reclamarci, cerchiamo consolazione nei campi elisi, nell’immortalità dell’anima, nella metempsicosi, nell’eterno ritorno, confidiamo in pratiche che negano la morte dall’imbalsamazione all’ibernazione.

Come potrebbe allora il digitale sottrarsi alle sirene dell’immortalità? O meglio come potremmo noi sottrarci all’illusione di ottenere l’immortalità tramite il digitale? Lo racconta, tra gli altri, con dovizia di particolari e di riflessioni filosofiche Davide Sisto, autore di La morte si fa social, un saggio incentrato appunto sulla relazione tra morte e cultura digitale. Apprendiamo così che le fantasie di Black Mirror e di Her, cioè di un software o di un sistema operativo che ci permetta di comunicare con i nostri cari defunti sono diventate già realtà. Eugenia Kuyda, dopo la morte del suo amico Roman, ha realizzato un bot che l’ha fatta comunicare con lo spettro digitale di Roman e, non soddisfatta, ha creato successivamente Replika un chatbot a metà tra il diario e l’assistente e destinato a divenire “un avatar digitale in grado di riprodurci totalmente e di sostituirci quando saremo morti; ma anche capace di creare “amicizie” con gli esseri umani” (D. Sisto, ibidem). Il giornalista americano James Vlahos ha creato un Dad-Bot, “un software con cui simula sul cellulare una conversazione scritta con (il padre) a partire dalla rielaborazione delle quasi centomila parole registrate” (D. Sisto, ibidem). Il servizio Eterni.me, una Startup ideata dal programmatore rumeno Marius Ursache e sviluppata nell’ambito del programma imprenditoriale del MIT di Boston, intende “ generare una copia digitale vivente dell’identità soggettiva in grado di mantenere operose post mortem tutte le caratteristiche e le capacità che hanno caratterizzato il singolo individuo durante la sua esistenza”… L’obiettivo è creare lo spettro digitale di ciò che siamo stati, dando origine a un’identità virtuale in grado di interagire con le persone che abbiamo amato e, dunque, di sostituirci mantenendo i nostri pregi e difetti” (D. Sisto, ibidem). Per non parlare poi del già attivo Eter9 il cui scopo è creare un Alter ego virtuale destinato a replicare e sostituire l’umano quando è offline, dapprima temporaneamente e poi per l’eternità. Si potrebbe allora essere indotti a pensare che il digitale ridefinisca a tal punto il senso del nostro rapporto con la morte da trasformarla in immortalità. In realtà anche le più sofisticate copie digitali degli umani defunti non sono altro che “zombie digitali”, dei simulacri nei quali vengono conservate e ricombinate le parole di chi ha vissuto così come i corpi imbalsamati conservano l’aspetto esteriore degli umani, non però la vita. Premesso che ognuno instaura il rapporto con la morte che più gli/le aggrada e che nello sviluppo dei nuovi spettri digitali verranno magari scoperte utilissime tecnologie innovative, non vi è dubbio che dal punto di vista psicologico la relazione con gli spettri digitali dei nostri cari scomparsi altro non è che la negazione della morte. Il ché è un desiderio antico quanto l’uomo ma ha il difetto di impedire il processo del lutto, l’unico processo psicologico che consente di superare la perdita e di tornare a vivere. Sul lutto Freud, nella sua consueta pregnante concisione, si era espresso così: “il lutto per doloroso che sia, si estingue spontaneamente. Se ha rinunciato a tutto ciò che è perduto, ciò significa che esso stesso si è consunto e allora la nostra libido è di nuovo libera (nella misura in cui siamo ancora giovani e vitali) di rimpiazzare gli oggetti perduti con nuovi oggetti, se possibile altrettanto o più preziosi ancora”. (S. Freud, Caducità).

In realtà digital death è molto altro che spettri digitali con vana pretesa d’immortalità, come testimonia il sito web Digital Death, che raccoglie tutto il materiale possibile sul legame tra cultura digitale e morte e si apre con queste parole della sua creatrice e curatrice, Stacey Pitsillides: “Digital Death explores how technology and design can shift our understanding of death and bereavement”. Il suo contributo si fonda sull’analisi delle relazioni sociali tra vivi e morti attraverso i social media e ha per focus l’ampliamento dei rituali e delle pratiche di lutto attraverso la progettazione di “cose” specifiche che fondono interazioni fisiche e digitali. “Attingendo principalmente dalla teoria del design di Latour e da una varietà di esempi, Pitsillides mostra come il design di queste “cose” può dar vita a nuove forme di eredità e rituali e come questi consentano agli utenti di creare biografie durature del defunto.”

La constatazione dalla quale la ricercatrice universitaria e designer inglese parte è sostanzialmente analoga a quella che altri studiosi si sono posti in altri ambiti di ricerca riguardanti il digitale: se la morte è una parte della vita e la vita è diventata digitale, è inevitabile che anche la morte sia divenuta digitale, il ché comporta la consueta trasformazione dello spazio pubblico e privato che il digitale porta con sé in ogni ambito in cui si declina. Qui si realizza a mio avviso la vera ridefinizione di senso che il digitale può apportare al tema della morte, cioè di favorire l’inserimento (o, se si vuole, il ritorno) dell’elaborazione del lutto in una nuova dimensione comunitaria, diversa però da quella locale, ora in declino, cui noi viventi analogici eravamo abituati. Se i funerali erano fino a poco tempo fa l’espressione del legame di appartenenza del caro estinto alla sua comunità geografica, sociale, professionale e culturale e viceversa, con i mass media e in particolare con la TV, essi sono divenuti, oltre che cerimonie politiche e di Stato, riti collettivi e di massa di identificazione, congedo, espiazione. Ora con funerali in streaming, Selfies at Funerals,  rappresentazione oleografica del defunto, digital altars, thanato-fenestra, mourning stones, si creano nuovi riti di congedo e nuove comunità di lutto online, che rispondono alle nuove condizioni sociali e culturali di globalizzazione, rispetto e integrazione (più o meno eclettica) di culture e religioni diverse, nuove forme e sfumature di legame onlife e di appartenenza. Non a caso l’azienda Sparks & Honey ritiene che uno degli otto lavori del futuro sarà il Digital Death Manager, il cui compito “sarà quello di fornire un supporto, in primo luogo, a organizzare il materiale condiviso online, in modo da determinare una chiara consapevolezza del destino della nostra vita digitale una volta che non saremo più in grado di gestirla in prima persona. In secondo luogo ad affrontare le conseguenze della sopravvivenza digitale alla propria morte. In terzo luogo infine a gestire e a elaborare il lutto soppesando le opportunità e le criticità che derivano dall’uso quotidiano del web” (D. Sisto, ibidem).

Rimane peraltro da verificare se queste nuove tecnologie (e professioni) per il lutto digitale così come la sempre più radicata commistione di morte e vita sui social media (Facebook con i suoi due miliardi di utenti attivi al mese, conta attualmente più di cinquanta milioni di utenti deceduti e costituisce dunque il più grande cimitero del mondo) avranno davvero successo nel facilitare il difficile processo del lutto o almeno la sua elaborazione collettiva. C’è da dubitarne. Non per l’inadeguatezza del digitale ma per la limitatezza dell’umano, o meglio degli umani, che pur essendosi evoluti fino ad inventare il digitale rimangono, di fronte alla perdita dei loro cari, bambini/e in lacrime. Davanti alla scomparsa di una persona cara, abbiamo infatti ancora a disposizione le stesse possibilità di reazione dei nostri più antichi progenitori, che Freud ha elegantemente riassunto in “Lutto e melanconia”: la negazione, la depressione e il lutto.

La negazione della morte, tipica della mania, l’abbiamo già vista all’opera nei sofisticati quanto vani stratagemmi dell’immortalità digitale.

“Se nel lutto il mondo si è impoverito e appare vuoto, nella melanconia, è l’Io stesso ad essersi impoverito e svuotato” – scrive Freud in Lutto e melanconia – poiché il sopravvissuto/a si era a tal punto identificato in modo ambivalente con la persona scomparsa da averla introiettata, fatta propria. Alla morte della persona cara, il sopravvissuto si sentirà dunque svuotato, rivolgerà verso se stesso l’aggressività che aveva prima proiettato verso la persona cara e non avrà altra possibilità, per essere in contatto con quest’ultima, che la sofferenza della depressione. Al di là degli strumenti che la tecnologia ci mette a disposizione, è infatti il tipo di relazione (ambivalente, narcisistica, etc.) con la persona scomparsa a determinare l’inclinazione o meno verso la depressione.

Gli strumenti digitali possono essere invece di utilità se stimolano e favoriscono il processo del lutto, che rimane peraltro, come afferma Freud “un grande enigma”. Se infatti può apparire scontato che dopo la perdita dei nostri oggetti d’amore, “la nostra capacità di amare (la libido) torna ad essere libera (e) può prendersi altri oggetti come sostituti o tornare provvisoriamente all’Io”, “resta per noi un mistero” “perché questo distacco della libido dai suoi oggetti debba essere un processo così doloroso”.  “Noi vediamo unicamente – continua Freud – che la libido si aggrappa ai suoi oggetti e non vuole rinunciare a quelli perduti, neppure quando il loro sostituto è già pronto. Questo dunque è il lutto” (S. Freud, Caducità), senza il quale, sia esso digitale o meno, non è possibile il superamento della perdita e il ritorno alla vita.

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