Lo chiamano “Hate surfing”, un modo impattante e brandizzabile di dire però una cosa di grande buon senso. Effettuare cioè l’ascolto sui social (con tutti i limiti precedentemente evidenziati) in modo molto mirato. Andando a ricercare prioritariamente quelli che ci criticano.
A livello superficiale, i benefici sono evidenti: potremo, gratuitamente e con poco sforzo identificare quali sono i nostri errori, le nostre manchevolezze più sentite e più fastidiose per il pubblico (o parte di esso). Ottenendo quindi indicazioni utili su come migliorare il nostro marketing mix.
A livello profondo però adottare questo approccio ha implicazioni più profonde. E più sconvolgenti.
La tentazione del negare a tutti i costi
In effetti, a tutti da’ normalmente un gran fastidio vedersi esposti a critiche. Anche se sappiamo di non essere perfetti e che le nostre attività potrebbero essere migliori, registrare un feedback negativo da parte del pubblico fa scattare delle difese – e si ribalta il problema su chi commenta (sono tutti dei cretini, le gente non capisce, sono sui social solo per criticare…).
Come se noi soli fossimo abilitati ad essere critici nei nostri confronti e un ritorno men che positivo da parte del pubblico sia quasi un reato di lesa maestà.
Rischiamo di farci domande troppo profonde?
Andando ancora più profondamente, si innescano anche meccanismi di autodifesa. Specialmente in aziende in cui la cultura aziendale sia improntata su una dottrina del tipo “Primo, non sbagliare. E nessuno ti licenzierà”. Un approccio molto diffuso, una filosofia dove chi sbaglia è a rischio. Di conseguenza un’azienda che diffonde presso dipendenti e manager una forte avversione al rischio d’impresa. Al conservatorismo – uno stile che in tempi come questi certo non aiuta ad innovare.
Di conseguenza chi parla male di noi è un nemico. Un nemico personale: immaginiamo se la sua critica fosse letta dall’Amministratore Delegato, dall’Ufficio Personale, dal mio capo – è un attimo che si diffonda il sospetto che io abbia sbagliato. Quel cretino là fuori mette a rischio la mia carriera, il mio stipendio.
La critica ci mette in crisi?
Dunque la pratica dell’Hate Surfing mette il dito nella piaga, dell’approccio iper difensivo molte aziende. E questa non è questione di Social Media – è questione dei fondamentali di business.
Di quello che siamo come azienda. Siamo innovatori? Allora occorre prendersi dei rischi. Provare. E sbagliare. E accettare un certo tasso di errori (con le conseguenze e i costi connessi) come indispensabili per progredire, imparare, imbroccare una svolta di prodotto / servizio / posizionamento che ci dia un vantaggio su un mercato dove i followers sono messi male.
Accettare anzi remunerare i manager che rischiano e sbagliano. A condizione che sbaglino a ragion veduta.
E’ la teoria del “Fail fast” (altro bel modo di impacchettare un concetto altrimenti abbastanza terra terra). Provare, vedere cosa succede, non intestardirsi a tenere in piedi a tutti i costi una idea che non funziona, trarre i giusti insegnamenti e provarne un’altra… fino ad imbroccare la killer app.
Ascoltare chi parla male di noi, non solo ci da’ una sana dose di umiltà, non solo ci aiuta a mettere a punto la nostra offerta ma ci aiuta anche a capire che una certa dose di errori è inevitabile. E va bene così, per un’azienda smart.
Con un caveat: a volte sbagliano ( o sono in malafede) anche quelli che parlano male di noi.. e dargli troppo retta sarebbe un errore.. di quelli gravi. Per dirla in termini texani, allora, “If it ain’t broken, don’t fix it” 🙂
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