Web Tax, no grazie…forse!

Non c’è bisogno di una web tax dedicata alle digital company secondo un report emesso da un gruppo di esperti nominato dalla Commissione europea. L’Expert Group on Taxation of the Digital Economy ha ritenuto, infatti, che le regole generali in materia di tassazione devono essere applicate alle digital company senza che sia necessario un regime di tassazione ad hoc che invece voleva essere creato tramite le proposte di legge relative alla cosiddetta web tax anche denominata Google tax.

web taxLe discussioni sull’argomento sono ben note. Le web company operano in Italia dall’estero dove pagano l’IVA e le imposte sui redditi, godendo di regimi di tassazione molto più convenienti di quello italiano. Al fine di fronteggiare questo “problema“, l’onorevole Francesco Boccia aveva presentato una proposta volta – a suo giudizio – a sottoporre indirettamente a tassazione in Italia le società che vendono spazi pubblicitari online e link sponsorizzati visualizzabili sul territorio italiano.

La proposta di legge obbligava i soggetti che volessero comprare tali spazi pubblicitari ad acquistarli solo da società titolari di una partita IVA italiana. Questa proposta aveva suscitato grandi polemiche perché non era chiaro come si conciliava con la normativa in materia di IVA comunitaria che prevede al momento l’obbligo di pagare l’IVA nel paese dove la società è stabilita. Quindi, qualora la norma fosse stata approvata, non era chiaro se le web company avrebbero continuato a pagare l’IVA del proprio paese di stabilimento, senza quindi portare alcuna maggiore entrata fiscale per lo Stato italiano e dovendo semplicemente aprire una partita IVA in Italia.

La posizione degli esperti europei e il prossimo cambiamento nel 2015 della normativa IVA, che richiederà il versamento dell’imposta nel paese del destinatario del bene/servizio, potrebbero aver posto fine a quella che, per i vari tira e molla di questi mesi, è una vera e propria “soap opera” sulla web tax. Tuttavia, una disposizione della c.d. delega fiscale potrebbe consentire al Governo di riproporre nuovamente la web tax anche se Matteo Renzi si è opposto in più occasioni a tali forme di tassazione.

Le web company non possono però dormire sonni tranquilli a causa dell’approccio sempre più aggressivo da parte sia della Guardia di Finanza che delle autorità penali. L’obiettivo di queste autorità, infatti, è di contestare che le sedi secondarie di tali società situate in Italia, che dovrebbero svolgere unicamente servizi di marketing o in ogni caso ancillari, gestiscono invece il business della società. La conseguenza di tale conclusione è che la società estera avrebbe una stabile organizzazione ai fini fiscali in Italia tramite la propria sede secondaria italiana e quindi dovrebbe pagare le imposte sui redditi e l’IVA in Italia.

In tale contesto, una recente sentenza della Corte di Cassazione penale che ha visto il mio studio e il sottoscritto direttamente coinvolti a difesa degli interessi di un operatore online, ha previsto che una società attiva nel settore dei servizi online con sede legale all’estero che utilizza una società italiana per la fornitura di servizi di assistenza ai clienti da remoto, non può essere considerata stabilita o residente ai fini fiscali in Italia.

Questa sentenza non porterà certo le web company a cantare vittoria perché le autorità fiscali non necessariamente seguono lo stesso indirizzo delle autorità penali. Ma è un precedente rilevante che rafforza la giurisprudenza in materia a favore delle società che adottano questo modello di business.

Sarà interessante seguire gli sviluppi della questione. Nel frattempo speriamo che le società straniere continuino ad investire in Italia. Ed è in tale contesto recente la notizia che l’Italia è rientrata dopo ben 8 anni tra i paesi Top 25 di At Kearney più attraenti per gli investimenti stranieri.

Se il buongiorno si vede dal mattino…

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