“Nani sulle spalle dei giganti“. Così definiva la nostra società già nei primi anni del vecchio millennio il filosofo francese Bernardo di Chartres, che – va detto – non ha lasciato ai posteri molto più di questa metafora. Ma non c’è mai limite al peggio. E quindi, guardando ad alcuni italici “guru” del digitale ed a come la politica lo sta rappresentando in questi giorni, l’impressione che si ha è che i nani siano persino scesi dai giganti. Con il risultato che anche molti tra i più lungimiranti non riescono a guardare oltre il proprio naso. Il problema è che il naso sfiora il suolo, vista la loro patologia.

Insomma: come investire in una Ferrari ed usarla per andare a comprare il giornale all’edicola sotto casa. Ma andare a comprare il giornale in Ferrari vuol dire spendere molto per la benzina, inquinare l’ambiente e non sfruttarne le caratteristiche. In altre parole: meglio una Smart.
Lo stesso succede per il digitale. Considerarlo solo come uno strumento di cost saving rende il processo di digitalizzazione non solo meno efficace, ma addirittura potenzialmente dannoso. I risparmi che si possono conseguire sono infatti proporzionali agli investimenti. Ma investire solo per risparmiare, senza considerare tutto ciò che di nuovo, di diverso, di disruptive questo implichi è un errore. Un errore che si paga avvalorando le tesi di quei neo-luddisti che si chiedono come reimpiegare le persone che dal digitale sono escluse. Visto nell’ottica del solo risparmio il digitale che fa risparmiare è lo stesso digitale che rischia di cancellare posti di lavoro. Se a questo digitale non si affianca quello che apre nuove strade, che sviluppa nuovi contesti, che produce realmente valore, il bilancio non può che essere negativo. Ma per vedere questi vantaggi bisogna saper (e voler) guardare lontano. Per questo c’è chi – altrove – manda satelliti in orbita per portare internet ovunque, promuove un ecosistema digitale supportando realmente l’innovazione, si preoccupa di sviluppare piani industriali che non usino maker e startupper abbandonati a loro stessi solo come inconsapevoli foglie di fico di un sistema bloccato, ma come reali promotori di cambiamento.
Il futuro è di chi lo sa immaginare, diceva Enrico Mattei. E quindi o sapremo tornare ad immaginare il nostro futuro – ed il futuro è digitale, questo è indubbio – oppure, scesi dalle spalle dei giganti, non faremo altro che subire le retroazioni negative della digitalizzazione senza saperne sfruttare le opportunità.
Ben detto. Digitale sarebbe lo strumento che consente di riprogettare la PA sulle basi di una seria riconsiderazione delle sue funzioni, delle sue ultime finalità. Questo al prezzo di svelare come e quanto la PA sia stata, e peggio per molti debba continuare ad essere, un modo per fare diversamente welfare.
Prendere sul serio l’opportunità del digitale costringe a dire l’indicibile: l’obesità levantina di procedure intricate e farragginose è esizialmente funzionale al mantenimento dell’obesità del suo organico, alla sua incontestabile autoreferenzialità e infine al consenso che da tutto questo si ritiene di ricavare piuttosto che quello che si teme di perdere se si volesse davvero riformare.
Il ritmo accelerato dello sviluppo tecnologico non sta producendo un progresso civile della comunità planetaria perchè questo non è l’obiettivo delle forze che questitipo di sviluppo intendono produrre.
Ci muoviamo in una logica perversa di auto-alimentazone di un sistema imprenditorialke auto-cratico in cui la tecnologia è parte di una macchina da guerra in cui un mostruoso oligopolio finanziario alinebta se stesso a scapito di una evoluzione civile della comunità ecumenica.
Francesco Introzzi